I combustibili fossili sono energia accumulata. Quando l’energia ci serve la usiamo, bruciandoli. Se non ci serve, sta lì, docile, pronta ad essere usata. E di petrolio, gas e carbone ce n’è tanto. Su questa possibilità, di avere energia in quantità praticamente illimitata in qualsiasi momento da attingere al bisogno, si sono basati la Rivoluzione industriale e il sistema energetico che ne è alla base. Le cose ora sono cambiate, come sappiamo, perché per combattere il cambiamento climatico e ridurre drasticamente l’immissione di altra CO2 in atmosfera dobbiamo smettere di bruciare combustibili fossili.

Ci troviamo così costretti a ricorrere a fonti rinnovabili, ma c’è un problema. Le fonti rinnovabili di cui c’è maggiore disponibilità, il sole e il vento, hanno un limite, che l’energia fossile non ha: l’energia solare e l’eolica dipendono dai capricci del tempo, dall’evolversi delle stagioni, dall’alternarsi del giorno e della notte. Non abbiamo più una docile fonte energetica che sta lì, a nostra disposizione. Sole e vento non sono programmabili, così non è detto che quando serve una certa quantità di energia questa sia subito disponibile. Quando ciò accade bisogna compensare in qualche modo, per esempio mettendo in funzione una centrale a combustibile fossile che fornisca la potenza mancante.

Le fonti rinnovabili di cui c’è maggiore disponibilità, il sole e il vento, hanno un limite, che l’energia fossile non ha: non sono programmabili, e non è detto che quando serve una certa quantità di energia questa sia subito disponibile

Si pone allora una questione tutt’altro che trascurabile. Siamo in piena transizione energetica, l’Europa ci dice che dobbiamo ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030; e la quantità di impianti a energia rinnovabile dovrà aumentare a un ritmo vertiginoso per coprire una fetta sempre più grande della potenza elettrica installata. Di conseguenza, la produzione sarà dominata dalle fonti rinnovabili, che però non sono programmabili, e tutte le volte in cui non saranno in grado di soddisfare la domanda serviranno centrali a combustibile fossile che compensino il deficit di energia. Me segue che bisognerà continuare a emettere CO2. C’è di più: saremo pure costretti, ironia della sorte, a buttar via l’energia elettrica che viene prodotta in eccesso rispetto alla domanda – cosa che inevitabilmente avverrà, e spesso, quando la quota di rinnovabili sarà molto alta.

Ma allora, in questa prospettiva, potremo mai liberarci dei combustibili fossili? Siamo condannati al riscaldamento globale, senza speranza? Per fortuna non è così, ci sono diverse strade per compensare la variabilità delle fonti rinnovabili, mediante sistemi di accumulo alternativi all’uso di centrali a gas che immettono CO2 in atmosfera.

La prima, la più immediata, passa attraverso l’uso di un sistema ampiamente sperimentato e usato da tantissimi anni: l’accumulo idroelettrico mediante pompaggio. Un sistema molto semplice: occorrono due invasi con acqua, uno in alto e l’altro in basso, collegati con una tubazione. Quando c’è eccesso di produzione di energia rinnovabile rispetto alla domanda, l’energia elettrica eccedente si usa per pompare acqua dal bacino più basso a quello più alto. Quando invece c’è difetto di produzione rispetto alla domanda, si fa fluire l’acqua dal bacino alto a quello basso, facendole attraversare una turbina collegata a un alternatore che produrrà l’energia elettrica occorrente, esattamente come fa una centrale a combustibile fossile, ma senza emettere CO2. Inoltre, il sistema non spreca l’energia rinnovabile in eccesso, che viene accumulata col pompaggio.

Ebbene, secondo uno studio dell'Rse (Ricerca sistema energetico), l’Italia ha già una grande capacità di accumulo da pompaggio installata, pari a circa 7,6 GW. Ma nel 2019 l’accumulo ha prodotto poco più di 1/5 della produzione nel 2002, anno di picco storico di utilizzo: la differenza è stata fornita in gran parte dalle centrali alimentate con combustibili fossili, con conseguenti emissioni di CO2 che potevano essere evitate. Strano, no? Perché tanto potenziale di accumulo idraulico non è stato utilizzato? Sembra che la ragione principale consista nel vantaggio economico derivante dal Capacity Market, un meccanismo con cui Terna, il gestore della rete italiana di trasmissione dell’elettricità, remunera chi ha centrali pronte a intervenire, rapidamente, per coprire i disallineamenti domanda-offerta ed evitare così i blackout.

Evidentemente il meccanismo complessivo di remunerazione è tale da rendere più conveniente, a chi produce energia elettrica (per esempio all’Enel, in Italia), costruire una centrale e pagare il gas che serve a farla funzionare (con le conseguenti emissioni di CO2) piuttosto che impiegare gli impianti di accumulo idraulico con pompaggio già esistenti. Una anomalia che non dovrebbe essere difficile eliminare, un passaggio essenziale nel processo di transizione energetica.

Si potrebbe osservare che comunque sia, il potenziale di accumulo idraulico in Italia è insufficiente, nel breve-medio termine, e quindi le centrali ci vogliono. Ma non è detto che sia così. Infatti, sempre secondo il citato rapporto Rse, il potenziale di accumulo si può espandere con nuovi impianti, e sono stati individuati: «8 possibili collegamenti con impianti di pompaggio di media-grande taglia (100-500 MW) tra laghi naturali e artificiali e 4 siti lungo la costa meridionale e nelle isole potenzialmente idonei all’installazione di impianti di pompaggio marino della medesima taglia». Il potenziale potrebbe essere più alto, e bene sarebbe che la nuova versione del Piano energia e clima in corso di aggiornamento ne tenesse il debito conto.

Ma non c’è solo l’accumulo idraulico. Per il disallineamento di breve periodo fra domanda e offerta si può ricorrere (e già si ricorre) alle batterie.

Nel futuro, non tanto lontano c’è l’accumulo con l’idrogeno. L’idrogeno verde (quello fatto mediante elettrolisi dell’acqua alimentata con elettricità rinnovabile) può essere accumulato in serbatoi a pressione, o liquefatto a bassa temperatura, o sotto forma di ammoniaca. Poi, quando serve, questo idrogeno può essere avviato a una pila a combustibile o a una turbina per produrre energia elettrica, rilasciando vapore d’acqua. Dall’acqua si parte e all’acqua si ritorna, senza emissioni di CO2.

Ma c’è anche un altro approccio, basato su una filosofia completamente diversa e proposto dalle compagnie Oil&Gas, che risolverebbe il problema delle emissioni di CO2 pur continuando a usare le centrali a combustibile fossile per compensare i deficit di produzione di energia rinnovabile.  L’idea è quella di estrarre la CO2 dai fumi della combustione della fonte fossile e pomparla sottoterra, in formazioni geologiche opportune. È un sistema che prende il nome di Ccs (Carbon capture and storage – cattura e accumulo del carbonio) e che presenta molti problemi che vanno dalla sicurezza all’alto costo, alla scarsa efficienza complessiva del processo. La comunità scientifica ha grandi perplessità in merito a questo sistema, perché è intrinsecamente non sostenibile, mentre le Oil&Gas lo vedono con grande favore per due ragioni, sul breve e sul medio-lungo periodo.

Sul breve periodo, il limite del costo elevato del processo di estrazione della CO2 dai fumi e del suo pompaggio sottoterra verrebbe in parte superato se si usasse come serbatoio di accumulo sotterraneo un giacimento di petrolio e/o gas esausto. Infatti in questo caso, iniettando CO2 in pressione, si riuscirebbe a «spremere» ulteriori quantità di idrocarburi che diversamente resterebbero intrappolate nel sottosuolo. La cosa paradossale è che questo approccio, in Italia fortemente sostenuto dall’Eni per i giacimenti nell’Adriatico, non azzera le emissioni di CO2 in atmosfera, perché poi si brucia una nuova quantità di combustibile fossile, quello «spremuto».

Sul lungo periodo le Oil&Gas invece pensano di trovare tutta una serie di siti, nel mondo, in cui sotterrare la CO2, oltre ai giacimenti esausti. Ovviamente questi siti non sono necessariamente vicini ai luoghi di produzione della CO2, e quindi bisognerà costruire tutta una rete di «CO2dotti», e navi che trasporteranno CO2 liquida, come oggi trasportano metano liquido.

Ma non si doveva fare una transizione ecologica? In questo modo si aggiunge al business del gas quello della CO2. A pensarci, l’idea delle compagnie Oil&Gas è geniale: fare profitto due volte. Una volta dalla vendita del loro prodotto e la seconda dal sotterramento del veleno che deriva dall’uso di ciò che hanno venduto.

Genialità a parte, e a parte i pericoli insiti nello stoccaggio sotterraneo della CO2, la quantità e la dimensione dei siti idonei non è infinita. A un certo punto non ci sarà più dove sotterrare, se si vorrà continuare a produrre energia mediante i combustibili fossili, come vorrebbero le Oil&Gas. Inoltre investire nella rete di CO2, nelle navi, nella ricerca di formazioni geologiche adatte, nella estrazione della CO2 e nella sua iniezione sottoterra, sottrae risorse allo sviluppo delle fonti rinnovabili, alla promozione dell’economia circolare e alla difesa della biodiversità, cioè alla transizione energetica ed ecologica.

Un sistema energetico basato sulle fonti rinnovabili è anche basato sui sistemi di accumulo: i soli sistemi di accumulo sostenibili sono quello idraulico e quello che si basa sull’idrogeno verde. Per questi occorre sfruttare al massimo le risorse del Pnrr

In conclusione, occorre prendere atto che un sistema energetico basato sulle fonti rinnovabili è anche basato sui sistemi di accumulo (senza i secondi le prime non possono sostituire le fonti fossili) e che i soli sistemi di accumulo su scala medio-grande sostenibili sono quello idraulico e quello che si basa sull’idrogeno verde, e su questi occorre investire subito, sfruttando al massimo le risorse finanziarie offerte dal Pnrr. Su tutti e due i fronti l’Italia è avvantaggiata: dispone di un elevato irraggiamento solare che permette la produzione di idrogeno verde con costi più bassi rispetto ai Paesi del Nord Europa e una conformazione orografica che permette di disporre di grandi capacità di accumulo idraulico distribuito su una molteplicità di piccoli bacini, in modo da minimizzare l’impatto ambientale.