Le ragioni che inducono a opporsi al progetto di riduzione del numero dei parlamentari trovano fondamento nella necessità di riaffermare la centralità del Parlamento nella nostra forma di governo.

Se è certo che da anni la rappresentanza politica sconta problemi di efficacia e di legittimazione, se è vero che la crisi progressiva del sistema partitico, la crescente distanza tra elettori ed eletti, le tendenze oligarchiche collegate all’incapacità della classe politica di auto-riformarsi, hanno alterato il senso della funzione rappresentativa, è anche discutibile che riforme di segno chiaramente populista, come quella in oggetto, possano determinare un significativo cambio di rotta. Al contrario, esse rivelano la volontà di incidere sul ruolo e sulla funzionalità del Parlamento, che da luogo di elaborazione e discussione delle proposte, di sede privilegiata dell’indirizzo politico, di controllo dell’operato del Governo, diverrebbe organo deputato a ratificare le scelte dell’Esecutivo e di altri soggetti, in omaggio a una retorica anti-parlamentare da anni scientemente portata innanzi da determinate forze politiche nel segno strumentale della lotta agli sprechi e ai privilegi della “casta”.

Come emerge dal documento firmato da più di 200 costituzionalisti, la riforma proposta, in un primo momento, dal Movimento 5 Stelle, determinerebbe non pochi squilibri, creando altrettanti problemi al funzionamento delle Camere. Tale alterazione dell’equilibrio sarebbe aggravata dall’intreccio tra riduzione dei parlamentari e mancata riforma della legge elettorale. Senza una riforma in senso proporzionale della legge elettorale e una contestuale revisione della base elettorale regionale del Senato, la riduzione dei parlamentari determinerebbe un deficit di rappresentanza per interi territori (basti pensare alle aree interne) con la conseguenza di incrementare divari e diseguaglianze che continuano a rappresentare un peso intollerabile per lo sviluppo socio-economico del nostro Paese.

Per queste e altre ragioni, va ribadito con forza e convinzione che i problemi del Parlamento prescindono dai numeri, i quali hanno significato solo se considerati nell’ottica delle funzioni attribuite a ciascun organo. In tal senso, il quesito referendario proposto agli elettori rivela davvero il suo volto ingannevole.

Una riduzione lineare del numero dei parlamentari non fornisce, infatti, alcuna garanzia di rivitalizzazione dell’istituzione parlamentare né sul piano della funzionalità (nessuna certezza, al momento attuale, sulla direzione da imprimere ad una, indispensabile, riforma dei regolamenti interni delle camere), né sul piano dell’efficacia, né del prestigio, da intendersi come la capacità del Parlamento di esercitare, con autonomia e responsabilità, la propria funzione rappresentativa.

Votare “no” significa, insomma, opporsi a una visione funzionalista del Parlamento, rigettare la logica, perdente ed ingannevole, della rapidità ad ogni costo (ad azioni rapide, ammoniva Salvemini, corrispondono spesso errori rapidi), depotenziare, si spera, definitivamente, la retorica dei risparmi di spesa, vero e proprio vessillo comunicativo di formazioni che, all’ombra dell’antipolitica, hanno proceduto nel corso degli ultimi anni a consolidare la propria posizione nel quadro partitico.

Non era certamente questa, peraltro, la logica che, in anni ormai lontani, aveva ispirato alcuni progetti di riforma organica del Parlamento. Chi, per motivare le ragioni del sì alla riforma, riporta, ad usum delphini, il pensiero espresso in passato da personalità di altissimo rilievo della nostra storia politica e istituzionale, come Nilde Jotti, compie un’operazione superficiale, rimuovendo (non si sa quanto consapevolmente) la tensione morale e ideologica che ispirava quelle proposte. Quanto esse, anche a distanza di tempo, rivelano, piuttosto, è che Il tema del Parlamento, della centralità parlamentare, è affrontabile anche in prospettiva democratica e progressista; chiariscono, inoltre, che argomenti come la fissazione di un ragionevole numero dei parlamentari, il monocameralismo, l’incremento delle forme e degli istituti della partecipazione popolare, la legge elettorale, la natura delle regole deputate a presiedere e garantire il regime della discussione parlamentare non sono mai stati un tabù. Il segno delle proposte elaborate in campo progressista a partire dagli anni Settanta simboleggiava, al contrario, il rispetto per le istituzioni, la preoccupazione per le condizioni della loro tenuta, la necessità di ipotizzare mutamenti in funzione delle acquisizioni di volta in volta emergenti in campo sociale.

Erano proposte, quelle, animate dalla volontà di impegnarsi in un compito addirittura “tragico”, quale quello di coniugare rappresentanza politica e domanda di giustizia sociale, in un momento in cui i grandi partiti di massa dovevano misurarsi con problemi inediti e con tentativi, per nulla camuffati, di destabilizzazione della struttura costituzionale dello Stato, come emergeva con chiarezza, ad esempio, nel disegno della Trilaterale.

Nessuna traccia di tale tensione si rinviene nella proposta sulla quale il popolo italiano dovrà esprimersi di qui a breve. Dietro l’argomento del risparmio di spesa si cela una lettura riduttiva del Parlamento, destinato a occupare un ruolo marginale nell’assetto dei poteri pubblici. Una visione miope che si colloca in perfetta linea con proposte attualmente in campo neanche troppo velatamente ispirate da logiche di progressiva privatizzazione della sfera pubblica rappresentativa, come quelle tendenti all’abolizione del divieto di mandato imperativo attualmente garantito dall’art.67 Cost. e all’incremento irragionevole degli spazi di democrazia diretta.

Dietro la fredda logica dei numeri, insomma, c’è una visione alterata della qualità della nostra democrazia, del funzionamento delle nostre istituzioni e del rapporto tra elettori ed eletti, che qualifica la nozione di rappresentatività.

Un’ultima considerazione concerne l’uso congiunturale della Costituzione. Qualunque sia l’esito della consultazione referendaria, non v’è dubbio che ipotizzare riforme costituzionali ad ogni piè sospinto nuoccia alla stabilità del sistema. La tendenza manifestata dalla politica nel corso degli ultimi decenni di plasmare a proprio uso e consumo la Costituzione va seriamente stigmatizzata. La Costituzione definisce, infatti, un equilibrio destinato a durare, presentandosi come documento che sistematizza un patrimonio di valori e regole condivise. L’equivalenza tra tempo della politica e tempo della Costituzione, la volontà ossessiva di ipotizzare riforme e, immediatamente o quasi, riforme delle riforme, rivelano, a ben vedere, il disagio che assiste i protagonisti della scena politica, che alimenta, al contempo, lo smarrimento del rappresentato. Il rischio, evidente, è quello di cedere definitivamente alla pragmatica della quotidianità, rinunciando ad una visione prospettica, e, perché no, ideologica, di largo e meditato respiro.

Un altro mondo è possibile, recitava un noto slogan pacifista; è possibile, in realtà, anche una diversa cultura delle riforme, ispirata ai principi ed ai valori della Costituzione. Votare “no” a questo progetto di riduzione del numero dei parlamentari è, in questa prospettiva, solo il punto di partenza; ripensare le condizioni dell’agire rappresentativo, ristabilire l’equilibrio costituzionale tra i poteri e rinvigorire il senso di fiducia dei cittadini nei confronti della politica è, insomma, ancora possibile. C’est n’est qu’un début, dicevano i protagonisti del maggio francese; affinché sia veramente così ci sarà bisogno dell’esperienza, dell’impegno e della responsabilità di ciascuno.