La dove la città finisce c’è un muro che circonda 3 milioni di metri quadri di terreno. Era il confine della città che chiamavano Mirafiori, guarda i fiori, una pianura dove a partire dal 1936 il cemento iniziò a prevalere sul verde. Oggi, se superi il muro della Fabbrica, trovi gruppetti di anziani e cinquantenni che stanno davanti ai bar dalle 8 del mattino.

Per capire lo stato delle periferie è necessario entrare nella quotidianità delle persone, ascoltarne le storie, i percorsi che li hanno portati a una fase di afasia, di lontananza da ogni tipo di istituzione «perché tanto non serve a niente, tanto è uguale». Il divorzio produttivo tra il quartiere e la Fabbrica è stato un processo lento, sfibrante, vissuto prima dal punto di vista economico e poi sempre più psicologico, che ha restituito alle persone un senso di inutilità. Come spiega Ugo Bolognesi della Fiom, «la gente è in cassa integrazione da 15 anni, ormai è diventato qualcosa di cronico e non si vede un’uscita». A partire dall’11 settembre 1980, quando la Fiat annuncia il licenziamento di 14.469 persone, il quartiere è andato incontro a una serie di processi di cambiamento che ne hanno segnato il declino, che, tuttavia, come spiega Bruno Manghi, «non è mai diventato degrado». Una serie di fatti “lievi” si sono messi in fila e hanno lentamente svuotato gli aspetti collettivi e comunitari della vita, favorendo l’isolamento relazionale e l’individualismo.

Se da un lato lo shock produttivo ha rimesso in discussione le scelte economiche delle persone, l’abbandono amministrativo ha favorito il senso di frustrazione: negli anni sono state chiuse la piscina comunale, i servizi sociali, il Serd, la ludoteca, il centro audiovisivo, la caserma dei vigili urbani e quella dei carabinieri, la biblioteca, tant’è che a un certo punto c’è chi si è iniziato a chiedere se Mirafiori facesse ancora parte della città di Torino, visto il ristrettissimo numero di presidi pubblici rimasti nel quartiere. La frammentazione e i cambiamenti del lavoro hanno poi portato a forme di occupazione sempre più “autonome”, senza colleghi, interrompendo il contatto quotidiano tra chi lavorava e viveva nello stesso luogo, negli stessi problemi e nelle stesse possibilità di soluzione.

Per questo oggi alle 8 del mattino Giovanni ha già fumato la quarta sigaretta e non sa come arrivare a mezzogiorno. Sta fuori casa perché non vuole far vedere ai figli che «non fa niente nella vita». Insieme a lui anche Paolo, Antonio e Luigi: una banda di solitudini che non s’incontrano. Parlano, ma non comunicano, discutono come se fossero pionieri di una middle class periferica. Ma i loro volti sono intellegibili, segnati da rughe che raccontano di notti insonni, i corpi sono piegati in avanti come se avessero preso un pugno in pancia, leggermente ricurvi con una gobba precoce che piega in avanti le spalle.

Alle 8 del mattino Giovanni ha già fumato la quarta sigaretta e non sa come arrivare a mezzogiorno. Sta fuori casa perché non vuole far vedere ai figli che "non fa niente nella vita"

Da dieci anni la loro vita oscilla tra cassa integrazione, disoccupazione, disperazione. Non sono borderline, non cedono all’evasione dell’alcolismo, dei “due tiri con gli amici” e alla reclusione del cane, ma, non trovando più il bandolo del lavoro, non trovano neanche quello del senso della vita (ciò che rende la vita insopportabile non è l’assenza delle cose, ma l’assenza di destino e di senso). È un fatto di reddito e un elemento di genere. Il loro dolore non ha modalità di espressione, né di condivisione, parlano di tutto, ma non di sé: del campionato del Toro, dell’Ucraina, del caldo e del fatto che non piove. Due ore al bar, una in garage e qualche giro a piedi li portano al fatidico mezzogiorno, quando si trascinano verso casa, aprono la porta senza che nessuno rivolga loro la parola, lo sguardo rivolto verso il basso perché non hanno il coraggio di guardare i figli in faccia perché non hanno fatto niente per loro.

«Quando sei disoccupato – spiega Paolo – la gente ti schiva, come se fossi affetto da una malattia contagiosa, non per cattiveria, ma è quasi per istinto che le persone non hanno voglia di sentir sempre parlare di problemi. Vedi le facce che si contraggono, si chiudono, come per timore. Dovrei mettermi a fare battute, ma non c’è un c… da ridere».

Nelle sue parole c’è il senso di colpa, l’idea di essere sbagliato, fermo, mentre gli altri corrono. Prevale la rassegnazione, le giornate si susseguono una uguale all’altra e lentamente e progressivamente diventano sofferenza psicologica perché smetti di avere una ragione per alzarti al mattino e qualche soddisfazione alla sera che ti dice che oggi hai pur fatto qualcosa.

Antonio è sempre stato precario: «sono un precario permanente, ma da quando c’è stato il Covid e poi la guerra va anche peggio. Sbatto a destra e sinistra come la pallina di un flipper. Con tante bollette e poco lavoro, mi sento solo, non so neanche non dico a chi chiedere, ma con chi parlare». Anche il nuovo presidente della circoscrizione Luca Rolandi racconta di aver trovato «una situazione di profonda sfiducia e il numero di non votanti è un indicatore su cui riflettere e lavorare». Anche Luigi racconta che a 50 anni «è umiliante essere sottoposti a continue prove, dover raccontare la tua storia, cosa hai fatto qua, cosa hai fatto là. Ho smesso di cercare, tanto non mi chiamano, ti vesti, ti prepari, spendi i soldi del biglietto per sentirti dire che è stato scelto l’altro candidato. Poi è inutile girarci intorno, a 50 anni sei lento, più gli anni passano, più smarrisci le certezze e questo ti rende debole davanti a chi fa le selezioni: per loro non devi desiderare altro che entrare in quella azienda, fargli capire che darai la tua vita per loro, ma io non so fingere, per me il lavoro è farmi le mie ore e avere lo stipendio a fine mese. I concorsi non li faccio, devi pagare la tassa di iscrizione (10-15€) e sono altri soldi da spendere».

Rispetto agli anni Ottanta le persone non protestano, non gridano, un po’ perché non sanno individuare una controparte, un po’ perché si sentono responsabili della loro condizione

Tutti raccontano della differenza rispetto al passato, quando tutto appariva chiaro, distinguibile, lineare: destra /sinistra, lavoro/disoccupazione, integrato/escluso. «Adesso lavori, come quelli delle biciclette (rider), ma stai economicamente peggio di chi non lavora e ha il reddito di cittadinanza». Da quando è iniziato il cosiddetto processo di terziarizzazione si sono ridotti sensibilmente i posti di lavoro e, come spiega l’economista Zangola, «oggi, più che in passato, l’offerta di lavoro è in larga parte poco qualificata, con problemi di sovra-istruzione, instabile, per non dire precaria e non adeguatamente retribuita».

L’aspetto diverso rispetto agli anni Ottanta è che le persone non protestano, non gridano, un po’ perché non sanno individuare una controparte (il Comune? il governo? la globalizzazione? la Russia? il capitalismo?) e un po' perché si sentono responsabili della loro condizione. Vivono in un mondo fatto di zolle poggiate sull’acqua. Ogni giornata, ogni ora, è una zolla, ed è difficile tenerle assieme. Si allontanano e tengono un piede su una e sull'altra, per loro stare in piedi intorno al muro è tutto.