Il mese scorso, sul "Corriere della Sera", Sergio Rizzo raccoglieva la denuncia pronunciata dalla Corte dei Conti sulla mancata valorizzazione del nostro patrimonio artistico. È inammissibile, denunciava la Corte (e con quella Rizzo), che gli Uffizi espongano solo 1.835 opere, tenendone circa 2.300 nei depositi. Ma anche: il Louvre fattura 40 milioni di euro all’anno, mentre gli Uffizi solo 8,6: perché? E i nostri 3.430 musei, 10.000 chiese, 30.000 dimore storiche, 4.000 giardini? Possibile, inoltre, che l’Italia non riesca a stabilire il valore delle opere d’arte costitutive il suo patrimonio artistico? E per quale motivo non si è finora riusciti a censire il numero di quelle opere, nonostante l’enorme somma di 2.100 miliardi di vecchie lire spesa dal 1976 a oggi per averne un catalogo?

Tutto ciò denunciato, va subito detto che i dati di cui la Corte discute (letti sul "Corriere") sono a dir poco dubbi. Le 10.000 chiese della Corte rispetto agli 8.092 comuni italiani sono poche, anzi pochissime, visto che solo a Roma le chiese storiche sono circa 250. I musei italiani sono 3.430, ma il Touring Club li dice 4.120. Le dimore storiche sono 30.000, ma Niccolò Pasolini dall’Onda, per decenni presidente dell'Associazione delle Dimore Storiche, sostiene che nessuno le abbia mai contate, benché lui ritenga siano oltre 40.000. Quindi, e non è poco, la Corte dei Conti conduce relazioni su numeri che paiono presi a caso; gli stessi poi riversati sull’opinione pubblica dal maggior quotidiano italiano. Dilettanti Corte e "Corriere"? Senz’altro no. Solo specchio fedele del ragionare a sentimento di quadi tutti i presunti "addetti ai lavori" sugli invece serissimi e concretissimi e tecnicamente molto complessi problemi della tutela del nostro patrimonio storico e artistico: come se, visto che «l’arte tutti sanno cosa sia» ( lo diceva Croce), tutti se ne possano occupare.

Da revocare in dubbio è anche il mito economicistico del Louvre che "guadagna", mentre i musei italiani no. Il Louvre è un immenso museo generalista, collocato in una delle più celebri e visitate città del mondo, Parigi. Gli Uffizi sono invece un museo fondato su una raccolta granducale, perciò non un museo generalista, collocato in una città, Firenze, celebre, ma mai come Parigi. Infine, un museo che, quanto a pubblico, se la batte con le decine e decine di altri musei fiorentini, colmi anch’essi di capolavori fino al soffitto; grandi, come il Bargello, Pitti o l’Accademia, piccoli, come il museo di San Marco, il museo Horne, la Galleria d’arte moderna; ciò senza contare le molte decine di chiese al cui interno si conservano opere fondamentali di Giotto, Masaccio, Ghirlandaio, Michelangelo, Andrea del Sarto, Bronzino, Pontormo e così via. Perché allora, invece di fare paragoni impropri con il Louvre (o con i Musei Vaticani, altro caso simile al Louvre), non ci si chiede quanti visitatori e quanti euro incassano all’anno, a Parigi, le Musée Rodin o il Jacquemart-André, ossia, in provincia, le Musée de Picardie ad Amiens, o quelli di Grenoble, Reims, Lione?

In attesa d’una risposta, aggiungiamo che dilettantesca è anche la tirata sui depositi degli Uffizi (come di ogni altro museo italiano). Un dato a tutti noto è che pochissimi sono i visitatori dei musei in Italia: 10.724.159 nel 2011 (fonte Mibac), di cui forse vale la pena osservare che quasi la metà (4.018.913, fonte Mibac) entra con un biglietto gratuito. Sono davvero tanto preziose le opere chiuse nei depositi dei musei italiani? No. Si tratta, infatti, quasi solo di opere minori, la cui funzione è dare senso di contesto storico alle opere maggiori esposte. Facendo un caso astratto (ma non troppo), esposto in museo si trova giustamente Leonardo, non il leonardesco Marco da Oggiono, i cui dipinti però attestano (tra gli altri) la diffusione del leonardismo nel primo Cinquecento in Lombardia. Ma c’è qualcuno davvero disposto a credere che se i musei italiani domani togliessero dai depositi, esponendole, le molte centinaia di migliaia di opere dei Marco da Oggiono della situazione, cioè i vari "Maestro del Farneto", Jacopo Loschi, Pietro Sparapane da Norcia, Pietro Ruzzolone, Antonio Viviani detto "il sordo di Urbino" e così via "minoreggiando", i 10.724.159 visitatori annuali d'oggi aumenterebbero a dismisura?

Cosa dire, poi, della valutazione monetaria delle opere? Reale o ideale? Cioè per vendere o tanto per sapere? Laddove le opere di interesse pubblico non si possano vendere – come ex lege giustamente è –, superfluo diviene conoscerne il valore monetario. Mentre se fosse solo per sapere, vadano i giudici della Corte in una qualsiasi casa d’aste a chiedere quale effetto inflattivo avrebbe introdurre sul mercato i milioni di opere che i nostri musei possiedono.

Infine, veniamo ai 2.100 miliardi di vecchie lire (1,1 miliardi di euro) finora spesi per il catalogo del patrimonio artistico italiano; inutilmente, perché, iniziato nel 1976, oggi, 36 anni dopo, è ancora lontanissimo dal vedere la conclusione. Cosa dire se non che un simile, immenso e impunito spreco (furto?) di soldi è l’ennesima prova della strutturale incapacità del Mibac di affrontare problemi organizzativi definiti in partenza, come è appunto la redazione di un catalogo? Tanto che, all’oggi, per sapere (all'incirca) quanti e dove siano i nostri monumenti e le nostre opere ancora di deve ricorrere alle vecchie e gloriose Guide Rosse del Touring Club, come per primo riconosce lo stesso Mibac nella controcopertina della edizione 2007, dove si legge «L’Istituto centrale per il restauro del Ministero dei beni culturali e ambientali ha attribuito alla collana del Touring club italiano la valenza di repertorio dei beni culturali esposti in Italia per la conoscenza unica sulla consistenza, qualità e localizzazione del patrimonio storico-artistico del nostro Paese».

Una ventina di anni fa, a una cena a casa di Giuliano Briganti, Alberto Ronchey, allora ministro, disse sconfortato «Il ministero che presiedo è del tutto ingovernabile, perché costituito da tremila irriducibili, ognuno intento a perseguire contro tutto e tutti la propria inesistente idea del problema». A quando l’avvento, per i beni culturali, di quel "ministero tecnico" promesso da Spadolini all’atto della fondazione del Mibac, nel 1974, trentotto anni fa, facendone invece solo un ministero di terza serie? A quando un ministero che finalmente tolga il problema della tutela dall'enorme ritardo culturale in cui è immersa e che ponga al centro della propria azione la conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente?