C’è un elefante nella stanza. E molti ancora fanno finta di non vederlo. Mi riferisco alla profonda crisi dei partiti conservatori nel mondo occidentale. In Italia se ne parla ogni tanto per mettere in luce, con ragione, che Forza Italia è stata divorata dai sovranisti nostrani, Lega e Fratelli d’Italia. Il che, risultati elettorali e sondaggi alla mano, è ormai evidente, anche se converrebbe domandarsi che cosa è stato il conservatorismo italiano durante la Seconda Repubblica viste le peculiarità del berlusconismo, un esperimento telepopulista – nella felice espressione di Pierre-André Taguieff – che anticipò i tempi. Il problema, però, supera di gran lunga le frontiere del nostro Paese. E dovrebbe far suonare il campanello d’allarme in casa di ogni buon democratico, sia esso conservatore o progressista.

Soffermiamoci un momento su alcuni semplici dati. Il Partito popolare europeo (Ppe), pur essendo ancora il primo partito a Bruxelles nonostante l’espulsione dei tredici deputati di Fidesz, ha ottenuto il 21% dei voti alle elezioni europee del 2019, quando nel 2014 era al 29,4% e cinque anni prima sfiorava il 36%. Ha praticamente dimezzato i suoi voti in appena un decennio. Per di più, con la formazione dell’esecutivo guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz in Germania, ha perso anche l’ultima presidenza di un governo importante dell’Unione europea. Al giorno d’oggi, riassumendo, i popolari possono vantare solo la guida della Grecia, con la Nuova democrazia di Mitsotakis, e, in coalizione con i Verdi, quella dell’Austria con l’Övp di Nehammer, dopo le dimissioni e l’abbandono della politica dell’ex enfant prodige Sebastian Kurz.

In attesa delle prossime elezioni in Portogallo (gennaio) e Francia (aprile), dove il Psd e Les Républicaines sembrano avere alcune chances di battere António Costa ed Emmanuel Macron, la situazione è, come minimo, preoccupante. È vero che, nonostante ciò, il Ppe esprime non solo la presidenza della Commissione con Ursula von der Leyen, ma anche dell’Eurogruppo con l’irlandese Pascal Donohe e a breve, a meno di imprevisti, del Parlamento europeo, con l’uscita di scena di Sassoli. Ma queste posizioni di apparente forza non riescono a nascondere una profonda debolezza che non è solo elettorale. Riguarda in primis il progetto politico.

Si è scritto molto nell’ultimo decennio riguardo alla crisi della socialdemocrazia dopo il colpo di coda della terza via blairiana. Ma non si è guardato – o lo si è fatto poco e approssimativamente – all’altro grande partito europeo. In sintesi, che cosa propongono per il futuro i conservatori? Non è chiaro. Come vogliono affrontare le grandi sfide di questi anni Venti del nuovo millennio? Non lo sappiamo. Che cosa vogliono essere «da grandi»? Non ne abbiamo idea. O quando un’idea – se la si può chiamare tale – esiste, è sovente più desolante del «non sa/non risponde». Basta dare un’occhiata al mondo anglosassone. In meno di un lustro, i Tories britannici si sono trasformati in un amalgama nazionalpopulista sotto la leadership di Boris Johnson, mentre il Grand Old Party statunitense si è trumpizzato – deriva che non si è frenata, nonostante le speranze, nemmeno dopo la sconfitta del tycoon e le drammatiche immagini dell’assalto a Capitol Hill. Per quanto si stia parlando di due partiti che non sono membri della famiglia dei popolari europei, a Londra e Washington i conservatori hanno vissuto un accelerato processo di radicalizzazione fino al punto di rientrare nella categoria di «nazionalpopulismo light» coniata da Roger Eatwell e Matthew Goodwin (National Populism. The Revolt Against Liberal Democracy, Pelican Books, 2018).

I Tories britannici si sono trasformati in un amalgama nazionalpopulista sotto la leadership di Boris Johnson, mentre il Grand Old Party statunitense si è trumpizzato, deriva che non si è frenata nemmeno dopo la sconfitta del tycoon e le drammatiche immagini di Capitol Hill

Nell’Ue la situazione non è poi così diversa, al di là delle ovvie differenze nazionali. Il Partido Popular spagnolo, attualmente all’opposizione, non solo con Pablo Casado e Isabel Díaz Ayuso ha radicalizzato il suo discorso rispetto ai tempi di Rajoy, ma governa già in ambito locale con l’appoggio dell’estrema destra di Vox, alleata di Meloni e dei polacchi del Pis. In Svezia, democristiani e liberali hanno deciso di mettere fine al cordone sanitario che isolava i Democratici svedesi e non escludono la possibilità di forgiare un’alleanza con l’ultradestra per ritornare al governo del Paese dopo le prossime elezioni. In Germania, la vittoria di Merz apre una serie di interrogativi sul fatto che la Cdu voglia in futuro mantenere alla porta Alternative für Deutschland, come fatto fino ad ora da Angela Merkel. Il nuovo segretario del partito interverrà fulminando i suoi dirigenti locali come fece la cancelliera dopo l’elezioni del liberale Kemmerich come presidente della Turingia con i voti dei cristiano-democratici e dell’estrema destra? Non è affatto chiaro. Non si dimentichi, poi, che Viktor Orbán alla fine degli anni Novanta, quando arrivò per la prima volta al governo a Budapest, si definiva un liberale ed era considerato una specie di Aznar in versione danubiana tanto da essere accettato nel Ppe, grazie anche alle buone parole spese a Bruxelles da Berlusconi. Poi la storia ha fatto il suo corso e, come racconta molto bene Stefano Bottoni (Orbán. Un despota in Europa, Salerno editrice, 2019), il leader di Fidesz ha indossato le vesti dell’autocrate e in pochi anni ha demolito dall’interno la democrazia ungherese.

Di fondo, la questione è che, dopo i fasti dei tempi di Reagan e Thatcher, non solo i conservatori hanno generalmente perso appeal in un’epoca segnata dalla politica pop, ma sono poco a poco rimasti schiacciati tra l’incudine di quella che Ronald Inglehart ha definito la «rivoluzione silenziosa» e il martello della «contro-rivoluzione silenziosa» delineata già una trentina d’anni fa da Piero Ignazi. Ossia, da una parte la diffusione dei valori progressisti e post-materialistici; dall’altra, la reazione nativista e autoritaria rappresentata dalle nuove estreme destre. Il che non riguarda solo la questione dell’immigrazione o la sicurezza, ma anche l’uguaglianza di genere, i diritti Lgbt, questioni come l’aborto e l’eutanasia. In fin dei conti, la visione del mondo. Lo spazio si è ridotto e i dubbi amletici sono aumentati esponenzialmente. Che fare, dunque? Nel microcosmo italiano, Forza Italia ne è la prova vivente, dibattuta com’è dalle tensioni costanti e dalle spinte centrifughe tra chi ha abbracciato (o vorrebbe abbracciare definitivamente) Salvini e Meloni e chi guarda a un immaginifico polo di centro con Renzi e Calenda.

Dopo i fasti dei tempi di Reagan e Thatcher, non solo i conservatori hanno generalmente perso appeal in un’epoca segnata dalla politica pop, ma sono poco a poco rimasti schiacciati tra l’incudine della "rivoluzione silenziosa" e il martello della "contro-rivoluzione silenziosa"Le decisioni sono spesso dovute all’elettoralismo e le proposte sono di corto respiro: manca, in conclusione, un progetto per il futuro. O quando qualcuno cerca di costruirlo, questo tende verso il modello illiberale di Orbán. Si pensi alla National Conservative Conference organizzata a Roma nel febbraio del 2020 dalla Edmund Burke Foundation, i cui invitati di riguardo sono stati, oltre al premier ungherese, Giorgia Meloni e Marion Maréchal Le Pen. Con l’impulso del filosofo israeliano Yarom Hazony, autore del saggio Le virtù del nazionalismo e pivot di questa operazione, la volontà è quella di riappropriarsi dell’eredità di Reagan e Giovanni Paolo II – a cui non a caso era intitolato l’incontro – sia per permettere a una parte dell’ultradestra di togliersi la patina di impresentabili neofascisti e accreditarsi come i veri conservatori del XXI secolo, sia per traghettare il mondo conservatore tradizionale verso la cittadella murata degli autoritari dei nostri tempi.

L’incapacità di risolvere questo rebus esistenziale e di trovare delle nuove coordinate condivise a livello ideologico porta i conservatori a scegliere sempre più frequentemente come compagni di viaggio gli esponenti dell’estrema destra. Convinti poi che senza il loro appoggio, foss’anche solo esterno a un esecutivo di minoranza, non avrebbero mai i numeri per mantenersi o riconquistare il governo del proprio Paese. Un dilemma che si riproporrà anche a livello europeo nel 2024. Senza Merkel, che pur non avendo avuto la capacità di affrontare la questione di fondo che dilania i conservatori ha saputo mantenere la barra dritta, siamo così certi che il Ppe vorrà tapparsi le orecchie per non cedere ai canti di sirena dell’estrema destra, se i numeri permettessero maggioranze alternative in Europa?

I conservatori sono il vero anello debole delle nostre democrazie. Come hanno segnalato Tim Bale e Cristóbal Rovira Kaltwasser (Riding the Populist Wave: Europe’s Mainstream Right in Crisis, Cambridge University Press, 2021), il rischio di una radicalizzazione del centrodestra è uno dei maggiori pericoli per la democrazia occidentale nel XXI secolo. Converrebbe dunque parlarne di più.