Alla vigilia del 25 settembre pochi avrebbero scommesso su una ripresa della partecipazione. Il calo dell’affluenza appariva inevitabile e la discussione verteva piuttosto sulle dimensioni dell’ennesimo segnale di sfiducia lanciato da cittadini preoccupati e stanchi per le crisi degli ultimi anni. A conferma di queste aspettative negative, il verdetto delle urne è stato pessimo. La percentuale di votanti è scesa sino al 63,9%, un valore di quasi dieci punti inferiore rispetto al 2018. Si è trattato dunque di un vero e proprio crollo, le cui dimensioni appaiono ancora più preoccupanti se si guarda alla distribuzione territoriale. Pur in presenza di un deciso peggioramento nel Centro Nord, è nelle regioni del Sud che i numeri sono stati impietosi: poco più di un elettore su due si è recato alle urne e tra gli oltre 500 comuni italiani in cui la percentuale di votanti non ha raggiunto il 50% la quasi totalità risultano essere meridionali e insulari.

Fermarsi ai numeri generali dell’astensionismo può essere fuorviante. In condizioni di libera espressione del voto esiste sempre una quota più o meno ampia di elettori che diserta le urne, e questo non necessariamente alimenta forme di contestazione delle istituzioni rappresentative. Il problema si pone, invece, se a ritirare il consenso sono solo o soprattutto alcuni settori della popolazione, che rinunciano a scegliere i propri governanti e, quindi, a vedere le proprie istanze adeguatamente rappresentate nel dibattito politico. Nel 1996, a margine di un suo intervento per l’American Political Science Association, Arend Lijphart definì la partecipazione ineguale un dilemma irrisolto delle democrazie che rischia di compromettere il carattere inclusivo del voto ottenuto attraverso il suffragio universale.

Il problema è ampiamente noto a chi studia i fenomeni partecipativi: in una fase di mobilitazione calante a sparire dal radar della politica sono per prime le fasce di popolazione con risorse scarse. La sottorappresentazione dei gruppi svantaggiati (a basso reddito e qualifica, espulsi dal mercato del lavoro o precari, residenti nelle aree più periferiche) ha evidentemente un impatto sull’elaborazione delle politiche pubbliche. L’argomento resta quello sollevato anni fa da Frances Fox Piven e Richard Cloward in Why Americans Don’t Vote (Pantheon Books, 1988): una minore presenza dei poveri tra i votanti, soprattutto all’interno di contesti sociali e territoriali fortemente diseguali, si traduce in una debole pressione sui governi. La scarsa capacità di incidere sull’agenda politica porta progressivamente i poveri a convincersi dell’inutilità della competizione elettorale avviando, quindi, una spirale di disaffezione.

Ma quanto profondi sono i divari partecipativi? Secondo una recente analisi basata sui dati dell’European Social Survey, la propensione ad andare a votare nei Paesi dell’Ue dipende ancora in larga parte dallo status socioeconomico, ossia dal reddito, dalla classe sociale e dal titolo di studio (cfr. il mio Underprivileged Voters and Electoral Exclusion in Europe, Palgrave Macmillan, 2022). Nel caso del reddito, in particolare, durante il periodo 2008-2018 la partecipazione elettorale del 1° quintile della popolazione risultava in media 7 punti più bassa di quella del 2° quintile e ben 17 punti inferiore di quella del quintile più ricco. Inoltre, negli anni della crisi economica più intensa (2010-2014) queste differenze si sono ulteriormente accentuate. Ma il dato più sorprendente riguarda le differenze tra i Paesi: nel Centro Nord Europa il ritardo partecipativo dei più poveri rispetto alla fascia più ricca è nettamente maggiore rispetto a quanto accade nell’area Sudeuropea. Il rischio relativo (il rapporto tra la probabilità di andare votare dei ricchi e dei poveri) raggiunge il valore di 6 in Germania, 4 in Olanda e Svezia, 3 in Italia e 2 in Spagna, Grecia e Portogallo. Analogamente, se si considera la posizione occupazionale, lo scarto partecipativo tra occupati e disoccupati è massimo nell’area Centronordeuropea (circa 25 p.p.) e minimo in quella Sudeuropea (circa 12 p.p.) dove la popolazione senza lavoro tende a partecipare in misura maggiore. Questo risultato riflette probabilmente le diverse caratteristiche dell’esclusione sociale, meno marginalizzante e stigmatizzante nei Paesi mediterranei dove, nonostante i più alti tassi di povertà e disoccupazione, i gruppi periferici sono relativamente integrati e hanno più relazioni sociali (C. Saraceno, D. Benassi ed E. Morlicchio, La povertà in Italia, Il Mulino, 2022).

Elevati livelli di disagio socio-economico non necessariamente producono effetti politici disgregativi: anzi, a determinate condizioni possono agire sui meccanismi di costruzione del consenso politico attivando la voce di settori dell’elettorato marginalizzati o insoddisfatti

È possibile però avanzare anche una lettura diversa. Elevati livelli di disagio socio-economico non necessariamente producono effetti politici disgregativi, anzi, a determinate condizioni possono agire sui meccanismi di costruzione del consenso politico attivando la voce di settori dell’elettorato marginalizzati o insoddisfatti. Se guardiamo allo scenario italiano, il passaggio dall’astensione alla protesta ha cominciato a rappresentare un’opzione concreta con l’emergere di partiti “sfidanti” e il successo del Movimento 5 Stelle nel Mezzogiorno ne è un esempio chiaro. Senza mediatori insediati, senza voto di preferenza, senza esperienze di governo locale o nazionale, il partito è riuscito a innestare, solo al Sud, la dimensione del risentimento politico dentro il tema più generale delle difficoltà materiali e delle preoccupazioni rispetto al futuro. Quindi, antipolitica ed economia, sentimenti anticasta e difesa para-sindacale (reale o percepita) delle istanze di una parte del Paese, di cui il reddito di cittadinanza è il provvedimento simbolicamente più significativo. Questa dinamica, iniziata nel 2018, si è accentuata nel 2022. La crisi delle forze progressiste ha allargato uno spazio di manovra per il M5S, che si è mobilitato quasi platealmente e senza competitors attorno alle istanze sociali (il lavoro) e ora anche ideali (il pacifismo) della sinistra.

Parassitismo? Acume politico? A prescindere dalla valutazione che si può dare della strategia del partito resta incerta la sua capacità di rallentare la caduta della partecipazione e, soprattutto, di contenere il divario partecipativo tra gruppi sociali più o meno privilegiati. In assenza di approfondimenti a largo spettro sul voto del 25 settembre, è ancora difficile capire se le aree più povere abbiano continuato a votare il partito di Conte. I dati ecologici sulla distribuzione del voto nei quartieri delle grandi città del Sud sembrano confermare questa ipotesi, in particolare nel caso di Napoli. Altre analisi, precedenti alle ultime elezioni, avevano però mostrato come il M5S stesse in realtà perdendo presa proprio nelle aree di perifericità territoriale e sociale. D’altro canto, se si guarda ai successi ottenuti dai partiti populisti e della destra radicale in Europa si scopre che a un’azione in alcuni casi significativa di rimobilitazione dell’elettorato non è corrisposta un’analoga capacità di riportare a votare le componenti più disagiate della popolazione, ancora nettamente indirizzate verso l’astensione, Infatti, il profilo di questi partiti resta indistinto rispetto a quello dell’intero elettorato, mentre tra i non votanti è ancora preponderante la quota di elettorato economicamente e socialmente periferico.

Se si guarda ai successi ottenuti dai partiti populisti e della destra radicale in Europa, si scopre che a un’azione in alcuni casi significativa di rimobilitazione dell’elettorato non è corrisposta un’analoga capacità di riportare a votare le componenti più disagiate della popolazione

In altri termini, lo stimolo populista sulla partecipazione esiste, ma resta confinato entro fasce sociali che si connotano più per atteggiamenti critici (ad esempio, un forte senso di deprivazione relativa e di squilibrio di status) che per condizioni oggettive di disagio. La partecipazione al voto alimentata da questi processi è transitoria, procede per ondate che possono anche affievolirsi. In questo senso, le prospettive di successo di partiti che fanno della rappresentanza dei ceti disagiati la propria bandiera dipendono, paradossalmente, proprio dalla loro capacità di distanziarsi rispetto all’opzione antipolitica tout court che ne fa la fortuna, o di incanalarla dentro un discorso più classicamente laburista e socialdemocratico.

Nel caso del M5S questa strada si presenta in salita per ragioni molteplici: per la difficoltà a difendere efficacemente, dall’opposizione, misure bandiera come il reddito di cittadinanza, per la composizione mutevole e problematica del suo elettorato di riferimento e, soprattutto, per il fatto che la capacità di mobilitazione dei ceti svantaggiati è una sfida particolarmente difficile. Partiti forti, sindacati e altre organizzazioni hanno storicamente incoraggiato i lavoratori ad andare a votare attraverso azioni di contacting, educazione al voto e stimoli informativi. Anche recentemente si sono avuti esempi di campagne elettorali in cui comparivano richiami espliciti alla working class (si pensi a quelle condotte da Sanders, Corbyn e, anche a destra, da Le Pen e Trump).

Tuttavia, indipendentemente dal target prioritario e dalle azioni intraprese, le campagne elettorali corrono sempre il rischio di “predicare ai convertiti”, di mobilitare gli elettori già attivi senza riuscire a ridurre le differenze partecipative esistenti. Questo avviene perché i partiti e i candidati non si pongono l’obiettivo di alzare genericamente la partecipazione dei più poveri, bensì di vincere le elezioni. Tirare dentro elettori distanti, poco conosciuti nei profili e nelle motivazioni, potenzialmente ostili, è un rischio che non possono correre. E, allora, la partecipazione sfuggente dei più poveri finisce per essere sacrificata sull’altare del realismo politico.