La “normale” modalità di cambiamento sociale e storico sembra essere quella che, vista retrospettivamente, appare come l’effetto cumulativo di una dinamica di sviluppo tipica di una data era, maturata in un orizzonte temporale di alcuni decenni. Nella seconda metà del XX secolo si possono ritrovare esempi di questo tipo di trasformazione protratta nel tempo. Nella dinamica della Guerra fredda, ad esempio; così come nella decolonizzazione, nella (neo)liberalizzazione e nella globalizzazione in economia e in politica, o nell’integrazione europea. Apparentemente più raro, d’altra parte (se prescindiamo dalle guerre e dalle rivoluzioni), è il cambiamento “rapido” che non richiede che qualche mese, talvolta solo giorni, per stravolgere irreversibilmente intere società e ordini sovranazionali, che di punto in bianco cessano di essere ciò che erano stati sino a pochi giorni prima.

Gli anni e i mesi compresi tra il febbraio del 1989 (gli incontri della tavola rotonda di Varsavia) e il luglio del 1991 (l’autoscioglimento del patto di Varsavia), insieme agli eventi accaduti in quel periodo – la scoperta da parte dell’opposizione di brogli elettorali in Germania orientale (maggio 1989), il massacro di Pechino (4 giugno), l’apertura del confine austro-ungherese in risposta all’esodo crescente dalla Germania orientale (giugno), la dissoluzione spontanea dei partiti comunisti, l’elezione di un primo ministro non comunista in Polonia (agosto), la fondazione (in quattro settimane) di non meno di quattro partiti politici, o movimenti per i diritti civili, in Germania orientale (settembre-ottobre), le rumorose manifestazioni di massa e, infine, la caduta del Muro di Berlino (9 novembre) – segnarono il “momento storico” dell’improvvisa implosione del socialismo di Stato in Europa. Effettivamente, la liquidazione di quel regime era l’obiettivo di un’opposizione politica che aveva subìto una repressione relativamente efficace, ma solo voci isolate lo consideravano un evento davvero possibile, o addirittura già in atto, e per giunta in maniera per lo più non violenta. Per la maggioranza dei principali attori e degli osservatori del tempo, sia esterni sia interni, il corso tumultuoso degli eventi superò ciò che sino a poco tempo prima era considerato qualcosa di assolutamente inimmaginabile.

Le cause, inevitabili o contingenti, controllate internamente e esternamente, economiche o politiche di questo improvviso collasso delle dittature del socialismo di Stato (per inciso, solo in Europa, non in Cina, in Vietnam o a Cuba), che in definitiva cementarono la vittoria finale dell’Occidente nella Guerra fredda, sono state analizzate dai sociologi (che hanno sostanzialmente lasciato questo compito agli storici contemporanei e futuri) molto meno rispetto ai suoi effetti immediati. Quasi istantaneamente, le scienze sociali internazionali con le loro fondazioni di riferimento si sono inventate una disciplina particolare – gli studi di transizione – guidata dall’ambizione di indagare a livello sincronico e comparativo, ricavandone indicazioni politiche, questa trasformazione, storicamente unica, dal sistema del socialismo di Stato a un sistema (quale allora veniva prevalentemente assunto o inteso) democratico-capitalistico disegnato sul modello occidentale. L’interesse principale delle scienze sociali nella fase intermedia di questo crollo in tre fasi del vecchio sistema era la fondazione istituzionale, economica, politica e culturale di un nuovo sistema sociale e, in definitiva, la costruzione delle condizioni fino a quel momento estremamente incerte per la sua stabilizzazione e il suo consolidamento.

Le problematiche che gli studi di transizione hanno affrontato sin dalla loro nascita e che tuttora devono affrontare (un elenco di questioni per nulla esaustivo e anzi via via arricchitosi nel corso del tempo) si articolano in alcuni “cantieri”, che riprenderò di seguito, in cui si cerca di comprendere gli sviluppi passati e al contempo di trovare soluzioni ai problemi attuali.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 1/20, pp. 7-19, è acquistabile qui