Ritorno al futuro in Zimbabwe: Cinque anni dopo il drammatico esito delle elezioni del 2008, che in un contesto di gravi violenze videro Robert Mugabe rieletto alla presidenza a dispetto della sconfitta subita al primo turno ad opera di Morgan Tsvangirai, il leader del Movement for democratic change (Mdc), lo scorso 31 luglio lo Zimbabwe è tornato alle urne.
Questa volta la vittoria elettorale di Mugabe e della Zimbabwe african national union – Patriotic front (Zanu-Pf), entrambi al potere dall’indipendenza nel 1980, è stata netta. Mugabe si è imposto con il 61% dei voti, mentre Tsvangirai si è fermato al 34%. La Zanu-Pf ha ottenuto 158 dei 210 seggi in parlamento, mentre il Mdc, il principale partito di opposizione, ne ha vinti appena 49.
Come spiegare l’ampia vittoria elettorale di Mugabe e della Zanu-Pf (che si sono affermati in tutte le province del Paese eccetto in quella del Matebeleland North) e, di converso, la pesante débâcle di Tsvangirai e del Mdc (che ancora una volta hanno invece dominato il voto nei principali centri urbani)?
Un primo dato da tenere in considerazione riguarda l’effetto che la formazione del governo di unità nazionale nel febbraio del 2009 ha avuto sui rapporti di forza tra i partiti politici zimbabweani. Creato sotto le pressioni esercitate dai capi di Stato della Southern african development community (Sadc), il governo di unità nazionale non ha mai realmente consentito al Mdc di interagire su un piano di parità con la Zanu-Pf. Mentre infatti Mugabe, rimasto presidente, ha mantenuto un forte controllo sulle leve del potere e, in particolare, sull’esercito e gli apparati di sicurezza, Tsvangirai, assunta la nuova carica di primo ministro, non è mai riuscito a condizionare l’azione di governo. Il ruolo di comprimario svolto dal leader del Mdc ha lentamente ridimensionato la portata della sfida lanciata nel 2000 al pressoché incontrastato predominio politico esercitato nei precedenti due decenni dalla Zanu-Pf in Zimbabwe.
Un secondo dato da considerare ha a che fare con lo stato di impreparazione in cui la leadership del Mdc si è fatta cogliere nel momento in cui, dopo un lungo tira e molla, Mugabe ha annunciato la data delle elezioni. Non solo il campo dell’opposizione si è presentato diviso (con il senno di poi, un dato forse marginale, dato il pessimo risultato registrato dai partiti minori rispetto alle elezioni del 2008), ma il Mdc si è dimostrato incapace di formulare proposte politiche convincenti per la popolazione rurale, in particolare per quanto attiene alla delicata questione del futuro della riforma della terra.
Un terzo fattore che non può essere trascurato è quello degli ostacoli frapposti dalla Zanu-Pf alla campagna elettorale del Mdc. Più in generale, la dura repressione che si è abbattuta sugli esponenti del partito nel corso degli anni ha finito per indebolirne le strutture locali. Per quanto non si sia registrata la violenza che aveva accompagnato le scadenze elettorali nel recente passato, la fretta con cui sono state organizzate le elezioni ha messo a nudo le debolezza organizzativa del Mdc. Tsvangirai e il Mdc hanno rifiutato di riconoscere i risultati delle elezioni, accusando la Zimbabwe electoral commission di brogli. I governi di Gran Bretagna e Stati Uniti hanno criticato la gestione e l’esito delle elezioni. Al di là di una serie di problemi tecnici, gli osservatori internazionali hanno invece sostanzialmente giudicato le elezioni corrette, mentre la Sadc le ha definite “credibili”.
Il risultato elettorale pone sul tappeto tre grandi questioni. In primo luogo, quella del futuro dello stesso Mdc e della democrazia in Zimbabwe. È difficile ora prevedere se Morgan Tsvangirai lascerà la leadership del partito o se invece l’impossibilità di un ricambio ai vertici produrrà nuove scissioni nel partito. Rimane il fatto che una debole opposizione renderebbe ancora più incerte le prospettive di un ripristino delle istituzioni democratiche e di una forte tutela dei diritti umani in Zimbabwe. In secondo luogo rimane da vedere che cosa succederà all’interno della Zanu-Pf. La ricerca di una soluzione al problema della successione a Mugabe, oggi ottantanovenne, non potrà essere ulteriormente procrastinata. L’ampia vittoria elettorale dovrebbe garantire al partito una certa tranquillità mentre si delineano gli equilibri futuri nel partito, ma le divisioni al suo interno sono profonde e, anche in questo caso, non è da escludere la possibilità di una scissione, i cui effetti sul governo e sulla normalizzazione del quadro politico sarebbero tutti da decifrare. In terzo luogo si apre adesso la questione della linea politica che i governi occidentali vorranno assumere nei confronti del nuovo (vecchio?) governo zimbabweano. Le sanzioni economiche e il congelamento degli aiuti non hanno evidentemente scalfito Mugabe e la Zanu-Pf, né offerto un valido sostegno al Mdc. Al contrario, la retorica terzomondista di Mugabe ha paralizzato la Sadc, mentre il governo cinese è stato rapido nel sostituirsi ai donatori occidentali fornendo aiuti e investimenti al Paese. La prospettiva di una maggiore stabilità politica rende ora imperativo riaprire un dialogo con il governo zimbabweano, così da poter svolgere un ruolo significativo nella ricostruzione e economica e sociale del Paese.