1. L’intervento militare della Nato nella ex Jugoslavia ha costretto i giuristi a porsi nuovi interrogativi sul fondamento, sulla legittimità, sulle condizioni e sui limiti dell’uso della forza nei rapporti fra gli Stati. Dal punto di vista del diritto internazionale, la conclusione più attendibile è stata che l’intervento, non legittimo alla stregua della carta dell’Onu, perché non deciso e non autorizzato dagli organismi dell’Onu stessa, poteva giustificarsi, solo in linea di fatto e non di diritto, in nome dei principi dell’«ingerenza umanitaria», quindi come fatto extragiuridico o antigiuridico aspirante a legittimarsi ex post, tanto che si è parlato di una consuetudine in formazione (e si sa quanto nell’ordinamento internazionale conti la forza normativa del fatto).

 

Queste conclusioni, anche se lontane dall’offrire una soluzione soddisfacente e generalmente accettata del problema, paiono collocarsi senza grandi difficoltà nel quadro di un ordinamento ancora «magmatico» e «primitivo» come quello internazionale, in cui l’assenza (almeno fino a epoca recente) di un’autorità distinta dalla collettività dei soggetti dell’ordinamento, o (anche oggi) la limitata efficacia di tale autorità, o talora la sua effettiva impotenza, lasciano larghissimo spazio ai comportamenti autonomi degli stessi soggetti, singoli o tra loro associati, e alle giustificazioni da questi in fatto offerte o invocate. Dal punto di vista del diritto costituzionale degli Stati democratici, e specificamente del diritto costituzionale italiano, il problema è però meno semplice.

I costituzionalisti, dopo gli sconvolgimenti materiali e ideali prodotti dalla prima e ancor più dalla seconda guerra mondiale, avevano in un certo senso «chiuso i conti» con il fenomeno «guerra» sulla scorta dei principi dell’articolo 11 della Costituzione: ripudio della guerra (salva la legittima difesa) e accettazione dell’autorità sovranazionale, garanzia di pace e giustizia, come limite alla sovranità statale.

Non si può, a mio avviso, troppo leggermente gettare a mare questa acquisizione come fosse una dottrina «stanca e ripetitiva» (G. De Vergottini, La Costituzione e l’intervento Nato nella ex Jugoslavia, «Quaderni costituzionali», 1999, n. 1, p. 125). Siamo infatti sul terreno delicatissimo dei «principi supremi» dell’ordinamento costituzionale: di quegli stessi principi che da un lato legittimano profonde innovazioni costituzionali attraverso le «limitazioni di sovranità» ammesse e preconizzate, dall’altro lato ne segnano il senso e il limite invalicabile (si pensi alle conseguenze dirompenti dell’unificazione europea, giustificate appunto dalla clausola «sovranazionale» dell’articolo 11, e alla dottrina secondo cui la cessione di sovranità potrebbe essere parzialmente annullata se si verificasse una lesione dei principi costituzionali supremi o dei diritti inviolabili: c.d. «controlimite»).

Non si può utilizzare la clausola «sovranazionale» dell’articolo 11 per vanificare il ripudio della guerra non difensiva, che lo stesso articolo proclama proprio come premessa all’accettazione di autorità sovranazionali capaci di assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni: cioè il contrario della «libera guerra» decisa dagli Stati. Né si può invocare l’articolo 10 (che al primo comma reca: «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute») e il principio di «adattamento automatico» del diritto interno al diritto internazionale consuetudinario per vanificare i principi dell’articolo 11, anche perché siamo ben lontani (fortunatamente) dall’avvenuta formazione di una consuetudine internazionale abrogatrice della carta dell’Onu. Comunque l’articolo 11 segna la direzione inderogabile nella quale lo Stato italiano è costituzionalmente abilitato a concorrere alla formazione di consuetudini internazionali: nel senso del progresso verso un ordine sovranazionale pacifico e giusto, non certo di un ritorno ad un diritto insindacabile di guerra dei singoli Stati o di gruppi di essi.

Ma non è tanto questione di esegesi degli articoli 10 e 11 della Costituzione, quanto del significato stesso del costituzionalismo democratico (o del costituzionalismo tout court). L’apertura sovranazionale e sovrastatale della nostra Costituzione e delle dottrine costituzionalistiche democratiche è tutta e solo nel senso della costruzione di un «ordine» internazionale: un ipotetico regresso dell’ordinamento internazionale verso forme di pura e semplice legittimazione della forza (la concezione e la prassi tradizionale della guerra) condurrebbe ad una insanabile contraddizione con l’«anima» della Costituzione e con i principi del costituzionalismo: che è, sì, prodotto storico, ma carico di una sua «ideologia» inconfondibile e irrinunciabile, fin da quando esso nasce con le carte della fine del Settecento.

2. Si tratta, allora, non di abbandonare il principio del ripudio della guerra, ma di sviluppare le premesse e le condizioni di quell’ordinamento internazionale pacifico e giusto cui l’articolo 11 finalizza l’apporto del nostro Stato. Con queste premesse e condizioni le esigenze di tutela dei diritti umani universali, e dunque anche le istanze di «ingerenza umanitaria», non contraddicono affatto: anzi esse ne costituiscono logico sviluppo.

Ogni ordine giuridico, in definitiva – e dunque anche quello internazionale – sorge in vista delle esigenze degli esseri umani. Un ordine internazionale che voglia essere capace, progressivamente e in prospettiva, di assicurare a tutti gli esseri umani, sotto ogni cielo, gli elementari diritti che fanno parte integrante della loro umanità, non solo può, ma deve necessariamente abbandonare un rigido criterio di non ingerenza negli «affari interni» dei singoli Stati, e richiedere ad essi, come condizione per legittimarsi in quanto membri della comunità internazionale, anche il rispetto di un livello minimo di tutela dei diritti umani al proprio interno. Né, da questo punto di vista, potrebbe costituire ostacolo insormontabile la tradizionale concezione secondo cui soggetti dell’ordinamento internazionale sono i soli Stati, se si ammette la finalizzazione all’uomo anche del diritto internazionale.

Come ogni ordine giuridico, anche quello internazionale esige di potersi affermare nei confronti di tutti i soggetti ai quali si rivolge (di tutti gli Stati), e quindi anche di potere autoritativamente richiedere a tutti gli Stati – senza trovare ostacolo nella loro «sovranità» – il rispetto dei loro obblighi: fra questi, nella prospettiva accennata, gli obblighi di rispetto dei diritti umani. Dal punto di vista del diritto interno, poi, la disponibilità alle «limitazioni di sovranità» nei confronti dell’organizzazione sovranazionale si accompagna all’esigenza che analoghe limitazioni valgano per tutti gli Stati.

Inoltre, come la maggior parte degli ordinamenti, anche quello internazionale non può eludere il problema della coercizione nei confronti dei soggetti che non si adeguino spontaneamente, né quindi il problema dell’uso della forza per proteggere o ripristinare l’ordine. Ma l’uso internazionale della forza – previsto esplicitamente dalla carta dell’Onu – non è «guerra», perché non è finalizzato all’annientamento del «nemico» da parte di uno o più Stati (non essendovi alcun «nemico»), bensì al ripristino dell’ordine internazionale: non più di quanto possa definirsi «rissa» lo scontro, anche armato, fra le forze dell’ordine e un gruppo di malviventi. Tale uso della forza non contrasta affatto, di per sé, con il ripudio costituzionale della guerra, e anzi la sua ammissibilità è una conseguenza dell’accettazione di un’autorità sovranazionale.

Tutto ciò solleva, naturalmente, il formidabile problema della costruzione, nella comunità internazionale, di un consenso comune, ampio e stabile – almeno «ideologico», se non sempre coerentemente seguìto dai comporta- menti – sul contenuto minimo dei diritti umani che gli Stati sono tenuti a rispettare: in modo da rendere, tendenzialmente, non controversa (sempre dal punto di vista «ideologico») la necessità di esigere da tutti gli Stati tale rispetto, e di intervenire nei casi di violazione. Si pone, altresì, il problema del controllo

«democratico» sull’uso internazionale della coercizione. Sono, d’altronde, i problemi di ogni ordine giuridico: e sono anche i problemi già affrontati negli sforzi in atto per la creazione di una giurisdizione penale internazionale.

3. Negli ordinamenti interni, è però un’ovvietà il principio per cui l’impiego della forza è legittimo e doveroso in quanto vi ricorra l’autorità a tutela dell’ordine, e non qualsiasi soggetto o gruppo di soggetti, sia pure a tutela di diritti propri o altrui (divieto della «ragion fattasi», cioè di farsi giustizia da sé): salvo il caso della legittima difesa o dello stato di necessità.

L’uso della forza da parte dei privati è normalmente represso, e diventa eccezionalmente legittimo solo quando risulti indispensabile per salvare sé o altri da un pericolo attuale, nella contingente mancanza dell’intervento dell’autorità preposta all’ordine. Anche negli ordinamenti interni possono sorgere (e talora sorgono) dubbi e controversie sulle condizioni e sui limiti di un intervento di legittima difesa o giustificato dallo stato di necessità: ma il principio (quello del monopolio dell’uso della forza da parte dell’autorità) è indiscusso.

Nella comunità internazionale, com’è noto, l’organizzazione dell’uso della forza da parte dell’autorità è ancora in larga misura embrionale e incompleta: ciò che, di fatto, lascia ancora (troppo) largo spazio all’uso della forza – illegittimo, in linea di principio – da parte dei singoli Stati. Ma ciò non corrisponde ad una condizione «naturale», e tanto meno necessaria: al contrario, il principio su cui si regge l’organizzazione internazionale (cui fa riferimento l’articolo 11 della nostra Costituzione) è quello, espresso nella carta dell’Onu, dell’uso della forza riservato, salvo il caso della legittima difesa, all’autorità internazionale.

Ne discende, fra l’altro, che l’impiego legittimo della forza a livello internazionale segue necessariamente regole diverse da quelle della guerra (o meglio, segue regole, mentre la guerra, com’è noto, non ne segue affatto), così come l’uso della forza da parte dell’autorità all’interno dello Stato segue regole sconosciute nel caso di uno scontro fra privati. L’uso della forza per ripristinare il diritto non tende ad annientare uno Stato e tanto meno un popolo; si oppone ad apparati dello Stato contro cui si interviene, non alla collettività delle persone che quello Stato rappresenta e organizza; può tendere ad abbattere o indebolire o condizionare un apparato di potere, ma non, di per sé, a infliggere sofferenze ad una popolazione; è vincolato, nell’uso dei mezzi coercitivi, ad un criterio di proporzione e di adeguatezza all’obiettivo così definito. È tutt’altra cosa dalla guerra, che nella concezione e nella prassi internazionale coinvolge totalmente nello scontro l’intero Stato «nemico» e la relativa collettività, costretta a subirne tutte le possibili conseguenze.

4. Si potrebbe a questo punto, o forse si dovrebbe, aprire la discussione sul se l’intervento della Nato nei Balcani potesse configurarsi come un intervento di legittima difesa di diritti umani violati, nella contingente inerzia dell’auto- rità internazionale che sarebbe stata legittimata a intervenire e in «supplenza» di questa; se tale inerzia fosse di fatto inevitabile; se gli obiettivi dell’intervento e i mezzi impiegati rispondessero ai criteri conseguenti.

Ma più che tentare risposte perentorie a questi interrogativi – il che richiederebbe un’analisi dei fatti – interessa qui osservare che il maggiore rischio «ideologico» verificatosi in questa occasione sembra essere stato quello di trasmettere all’opinione pubblica mondiale un messaggio regressivo anziché progressivo: non nel senso, cioè, che si agiva in uno stato di «necessità», pur sempre ispirandosi all’ideale di un ordine internazionale pacifico e giusto (quello cui si riferisce l’articolo 11 della Costituzione), e sia pure, in ipotesi, pagando il prezzo di una ancora troppo imperfetta realizzazione dei suoi postulati, bensì nel senso che quell’ideale è morto e sepolto, e che l’unica realtà valida è il rapporto di forze, nella specie fra gli Stati dell’alleanza occidentale e altri Stati che di essa divengano «nemici»; che sono finite le utopie dell’internazionalismo, e che finalmente si torna a ragionare nei termini tradizionali e «realistici» della guerra come strumento supremo, o almeno estremo, della politica internazionale. Un messaggio dunque non già aperto ad un futuro da costruire, ma rivolto ad un passato che l’umanità sembrava volere faticosamente superare.

Questo messaggio è inaccettabile. Che la costruzione dell’ordine internazionale pacifico e giusto preconizzato nell’articolo 11 sia ancora all’inizio, e che immense siano le difficoltà a procedere in questo senso, è un fatto: ma il costituzionalismo non può rinunciare, per quante possano essere le difficoltà e le contraddizioni, ad affermare la forza del diritto – umana imperfetta espressione della giustizia – piuttosto che il diritto della forza.

[Questo articolo uscì sul numero 5/1999 a seguito dell'azione militare intrapresa dall'Alleanza atlantica contro la Serbia di Slobodan Milošević.]