Un tempo lontano, in Italia, c’era la stagione dei congressi dei partiti. Allora, per convenzione, non cadevano i governi, che pure nella Prima Repubblica cadevano spesso come fichi maturi dagli alberi. La stagione dei congressi dei partiti, momenti di elaborazione collettiva ma anche luoghi in cui si nominavano segreterie dopo aver pesato le correnti con voti a emendamenti ai testi delle tesi congressuali, è stata sostituita da un continuum di duelli personali, interviste ai giornali, posizionamenti. Nei partiti, così come nei movimenti nati per far deflagrare la politica dei partiti e trasformarla in democrazia diretta e digitale. Senza momenti di sintesi istituzionalizzati tutto avviene in un flusso continuo. In questi giorni, ad esempio, siamo alle prese con l’ennesimo psicodramma a 5 Stelle, una forza politica che sino a un certo punto è cresciuta a dismisura perché ha saputo rispondere a un malessere e a una crisi reali, individuando nemici assoluti e proponendo un’idea semplificata della partecipazione. Proprio quell’idea confusa non poteva che generare problemi di leadership e, naturalmente, chi l’ha immaginata (Grillo e Casaleggio) questo lo sapeva benissimo.

Il problema per l’Italia, e per quel che ci ostiniamo a chiamare centrosinistra pur non sapendo più bene cosa esso sia, è che l’esito della deriva del battello ubriaco a 5 Stelle avrà conseguenze politiche

Il problema per l’Italia, e per quel che ci ostiniamo a chiamare centrosinistra pur non sapendo più bene cosa esso sia, è che l’esito della deriva del battello ubriaco a 5 Stelle avrà conseguenze politiche. Suona dunque un po’ stonato chi riprende le dichiarazioni di Beppe Grillo contro Conte per dileggiare chi – Enrico Letta – propone(va) l’ipotesi di coalizione con il Movimento. Godere sui social da una posizione di minorità come fanno i politici del centro liberale non è lungimirante qualsiasi cosa si pensi di Giuseppe Conte, l’avvocato verboso, e del comico stralunato.

Allo stato abbiamo una coalizione di centrodestra che viaggia attorno al 50% e che, nei sondaggi e nelle urne, ha drenato una parte importante del consenso populista di destra ai 5 Stelle. Per capirsi e senza pretesa di scientificità, la destra ha già preso i voti di chi si rivoltava contro la classe politica, intercettato con i Vaffa Day e con l’individuazione di nemici del popolo facendo fuori i quali tutto sarebbe cambiato, ma non quello dei Meet Up, della bolla referendaria sull’acqua e del Reddito di cittadinanza. Contro lo schieramento Meloni-Salvini-Forza Italia (che non definirei più centrodestra) c’è una presunta coalizione Pd/quel che resta del M5S più qualche punto a sinistra e, forse, qualche punto al centro renzian-calendiano.

Per tutto ciò che si pensa alternativo ai temi agitati da Lega e Fratelli d’Italia, il collasso dei 5 Stelle e non il lento ritorno di una quota importante dell’opinione pubblica nell’alveo della “normalità” dovrebbe essere un guaio, non l’occasione per fare il tweet ficcante. Non perché Conte sia uno statista visionario, non lo è; non perché il M5S esprima idee particolarmente avanzate o interessanti, ma perché il collasso significa un altro colpo alla credibilità di un quadro politico imploso. Se nemmeno i riformatori della politica sono scevri dai peggiori vizi della politica è proprio la democrazia a non funzionare. Un buon argomento se sei Xi Jinping o Vladimir Putin, meno se sei un democratico liberale di centro. E poi, quel movimento senza bussola conta ancora almeno il 10-15% dei voti che non Italia Viva, non il Pd, non Carlo Calenda e neppure ecologisti e quel che c’è a sinistra (qualsiasi cosa sia) sembrano in grado di raccogliere.

Ridere del cadavere dei 5 Stelle significa non temere uno sbarco della destra al governo con equilibri diversi dal passato (quando a comandare era Berlusconi, non Meloni e Salvini). E non capire che, magari rimanendo determinante a causa di una legge elettorale pessima, il centro non drenerà quei voti

Ridere del cadavere dei 5 Stelle significa dunque non temere uno sbarco della destra estrema al governo con equilibri diversi dal passato (quando a comandare era Berlusconi, non Meloni e Salvini). E non capire che, magari rimanendo determinante a causa di una legge elettorale pessima, il centro non drenerà quei voti. L’ipotesi che i tecnici liberali al potere senza mandato elettorale possano prendersi definitivamente il Paese, renderlo “normale”, appare come la solita illusione perdente di quell’élite che pesa, governa, orienta i processi in diversi luoghi che contano ma poi fonda partiti che raramente superano il 5% (dal Pri di La Malfa fino a Renzi, passando per Dini e Monti). Godere invece della vacanza della politica per dare finalmente le chiavi della macchina ai tecnici, aspettando tempi migliori, invece, non è esattamente un’idea che si coniuga con i valori della democrazia liberale che tanto piace al centro liberale. E, soprattutto, non è un’idea che ha portato bene: dopo ogni governo tecnico chiamato a salvare il Paese abbiamo avuto sconquassi elettorali (eccezion fatta per Dini).

Non solo, la dinamica dei sondaggi indica come il sostegno al governo Draghi non favorisca le forze che lo sostengono. Una storia che il Pd conosce bene avendo fatto da prestatore di consensi parlamentari a tutte le operazioni tecnico-politiche determinate dai vincoli esterni e gestite dall’establishment liberal-internazionale. Ma i vincoli, così come la figura di Draghi quale assicurazione contro il ritorno dell’austerity e della restituzione delle risorse europee in forme penalizzanti per l’Italia, rappresentano un problema se la discussione sull’Europa, sulla direzione da prendere avviene in cerchie di potere ristrette. Le conseguenze elettorali dei governi tecnici ci dicono proprio che per tornare a contare, la politica deve parlare delle grandi questioni che ha davanti e non gestirle come se si trattasse di scelte neutrali.

Per la sinistra l’implosione del M5S pone (l’ennesimo) problema di questa fase complicatissima e pure ricca di opportunità. Servirebbero cose semplici da dire e complicate da fare. Studiare e conoscere il Paese e le sue pieghe – quando il Movimento proponeva il Reddito di cittadinanza sapeva di cosa stava parlando – provare a cambiare il senso del discorso. In autunno si vota in un sesto dei comuni italiani e questa discussione la sinistra potrebbe e dovrebbe farla prima e durante la campagna elettorale. Nelle città grandi e piccole c’è una ricchezza che la politica nazionale non sembra saper intercettare né capire. A partire da questa (dove e quando c’è) si dovrebbero costruire, città per città, coalizioni a geografia variabile (civiche, Pd, sinistra e anche 5 Stelle) per cominciare a immaginare qualcosa che somigli a una coalizione nazionale da contrapporre alla destra. Cinque o sei idee forti, un’idea di Paese, risposte al cambiamento climatico e non agitazione dell’apocalisse, un’idea contemporanea dei diritti del lavoro e un’idea di Welfare e di una Pubblica amministrazione inclusivi e capaci di rispondere a un mondo flessibile, dove le donne lavorano. Parlare d’altro in maniera costante per evitare che le polemiche sugli sbarchi, sui pestaggi come quello del carcere di Santa Maria Capua Vetere o, peggio, sulle presunte culture wars agitate dalla destra nello stesso modo in cui lo si fa negli Stati Uniti monopolizzino il dibattito politico.

Infine, sempre pensando a chi gioisce di come stia messo male il grillismo, la politica si fa con quel che c’è, non con le fantasie sul partito d’Azione liberale (e oggi anche un po’ liberista) che di voti non ne ha mai presi. I 5 Stelle hanno il più grande gruppo parlamentare e saranno determinanti per eleggere il prossimo Capo dello Stato e tutti in questa legislatura ci hanno dovuto fare i conti e i governi. L’idea che sia meglio vederli deflagrare in mille rivoli significa non fare i conti con la realtà. Coloro che si presentano come liberali dovrebbero essere pragmatici, non ideologici come i nemici di sinistra da cui sono ossessionati - e che non sono granché ideologici.

Post scriptum: a proposito di congressi e partiti, l’Italia è alla presidenza del G20 mentre il ministro degli Esteri è alle prese con una guerra intestina alla sua forza politica. Non è la prima volta che succede, i giochi di corrente o i capricci dei partiti del 2% che debilitano l’azione di governo sono un classico italiano e spesso non sono determinati da questioni dirimenti. Questa cosa è un vizio malsano di tutta la politica italiana, una di quelle cose che rendono il Paese poco credibile.