È un anniversario per molti aspetti mesto, questo ventennale degli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001. Gli attentati e quel che ne è seguito – la «guerra globale al terrore» nella retorica dell’epoca – sono diventati vieppiù marginali nel dibattito pubblico e politico negli Stati Uniti. Il Paese si è sì assuefatto a una sorta di azione militare perenne e a bassa intensità: una campagna antiterroristica invisibile e largamente indolore per chi la conduce, basata su droni, eliminazioni mirate e uno stato di guerra senza fine, ancora giustificato da quanto accaduto vent’anni fa. I timori e le motivazioni che l’avevano giustificata, questa guerra, si sono fatti però sempre più sfocati.

La paura del terrorismo è rimasta, ma è inevitabilmente divenuta una priorità tra le tante per il pubblico statunitense e non più associata esclusivamente alla minaccia dell’Islam radicale. Sostenute inizialmente da larghe maggioranze, le guerre in Afghanistan e in Iraq sono state vieppiù contestate (secondo Gallup, in vent’anni la percentuale di americani che giudica un errore l’intervento militare in Afghanistan è passata dal 5 al 45-50%). La decisione di Trump e Biden di completare il ritiro dall’Afghanistan è stata appoggiata da una maggioranza ampia e sostanzialmente bipartisan, anche se la rapida vittoria talebana, il caos dell’evacuazione, le immagini drammatiche che sono giunte da Kabul e, soprattutto, l’ultimo attentato costato la vita a tredici soldati statunitensi hanno alimentato forti polemiche e ulteriormente indebolito Joe Biden e la sua amministrazione.

Questa ultima umiliazione in Afghanistan è parsa rappresentare, in modo quasi paradigmatico, il ventennio di «guerra al terrore». Con una scelta di comunicazione politica alquanto azzardata, Biden aveva deciso di fissare il completamento del ritiro proprio all’11 settembre 2021, allo scadere del ventennale. Il simbolismo, ovvio ma incauto, serviva a indicare che sarebbe stato questo presidente a chiudere vent’anni di scelte errate e inconcludenti, costate agli Stati Uniti migliaia di vittime e miliardi di dollari. Per funzionare, però, il ritiro avrebbe dovuto essere ordinato, l’Afghanistan sarebbe dovuto rimanere il più possibile fuori dai riflettori e, per usare la formula attribuita a Kissinger rispetto al Vietnam, vi sarebbe dovuto essere un «intervallo decente» tra la partenza degli ultimi soldati statunitensi e l’inevitabile caduta del Paese sotto il controllo dei talebani. Nessuna di queste condizioni è stata rispettata; il collasso dell’esercito afghano e la ritirata americana hanno suggellato un ventennio di illusioni, fallimenti e promesse disattese. Che questo anniversario prova appunto a chiudere, permettendo così agli storici alcuni bilanci e considerazioni sugli Stati Uniti e le modalità, intrinsecamente contraddittorie, con le quali hanno esercitato ed esercitano la loro egemonia.

Per usare la formula attribuita a Kissinger rispetto al Vietnam, vi sarebbe dovuto essere un “intervallo decente” tra la partenza degli ultimi soldati statunitensi e l’inevitabile caduta del Paese sotto il controllo dei talebani. Nessuna di queste condizioni è stata rispettata

La risposta statunitense all’11 settembre è stata al contempo eccezionalista, uniltaterale e velleitaria, nelle sue irrealistiche ambizioni. Gli attacchi terroristici hanno stimolato un’ulteriore accentuazione di una torsione iper-nazionalistica che aveva segnato la risposta conservatrice e reaganiana alla crisi degli anni Settanta, ma che nella sua versione liberale e progressista aveva trovato poi piena ricezione anche in tanta retorica clintoniana. «Vogliamo essere una nazione al servizio di obiettivi più grandi di quelli che riguardano solo noi stessi», affermò George Bush nel suo primo discorso sullo Stato dell’Unione dopo gli attentati. «Ci è stata offerta un'opportunità unica e non dobbiamo lasciar passare questo momento». Questo iper-nazionalismo si combinava con, e sembrava trovare giustificazione in, un gap di potenza, tra l’egemone – gli Stati Uniti – e il resto del mondo, che all’epoca non sembrava avere pari. Gli Stati Uniti emergevano da un decennio nel quale le fosche previsioni su un loro ineluttabile declino erano state messe a tacere, grazie anche a una rivoluzione tecnologica che aveva rilanciato il primato economico statunitense e a un dominio militare che la fine della Guerra fredda e il collasso dell’Unione sovietica avevano reso ancor più incontestabili. «Ho riguardato tutte le statistiche comparative sul personale militare e le spese in difesa degli ultimi 500 anni» scrisse nel 2002 lo storico Paul Kennedy, «e nulla è mai esistito come questa disparità di potenza... Nessuna altra nazione» nella storia «nemmeno si avvicina» al dominio statunitense.

Il combinato disposto di potenza e nazionalismo eccezionalista finì per generare un’equazione strategica nella quale convergevano ottimismo (sulle possibilità), unilateralismo (nell’approccio) e spregiudicatezza (nei metodi). «È un tempo di opportunità questo per l’America», proclamava la prima dottrina di sicurezza nazionale di Bush jr., quella National Security Strategy (Nss) del 2002 che finì per incarnare e sublimare la hybris dell’amministrazione repubblicana e della sua risposta al’11 settembre; «lavoreremo per tradurre questo momento d’influenza in decenni di pace, prosperità e libertà». Opportunità che non potevano attendere i tempi della diplomazia multilaterale o sottostare alle costrizioni del diritto internazionale. Che andavano perseguite facendo leva sull’elemento primario e indiscusso della potenza statunitense, quell’hard-power militare il cui utilizzo era già stato rilegittimato dalla stagione delle «guerre umanitarie» del decennio precedente. E che – diversamente dal passato – non imponevano sacrifici collettivi, con una guerra ormai affare di un corpo di militari di professione (e i cui sacrifici toccavano quindi un numero limitato di famiglie e comunità) e dai costi sostanzialmente assorbibili da un Paese assueffatto ad alti deficit e debito. In uno dei suoi primi discorsi dopo l’11 settembre, Bush jr. invitò gli americani a continuare a consumare e divertirsi: «Andate a Disney World in Florida. Portateci le famiglie, godetevi la vita come merita di essere goduta». Più concretamente, e con un atto senza precedenti, il Paese andava in guerra – una guerra definita come globale e infinita, per giunta – tagliando le tasse: con le aliquote più alte dell’imposte sul reddito ridotte di alcuni punti percentuali, e i percettori di redditi alti e altissimi – l’1% più benestante della popolazione – a beneficiarne.

L’effettiva spendibilità dello strumento militare si è scontrata con conflitti asimmetrici, come quelli afghano e iracheno, dove tale superiorità si dimostrava meno significativa e, ancor più, con la crescente indisponibilità dell’opinione pubblica interna a sostenere i costi umani e materiali della guerra

E però la combinazione di eccezionalismo, potenza e unilateralismo – che nella retorica al tempo stesso idealista e realista della Nss avrebbe dovuto creare un «equilibrio di potenza a favore della libertà» (a balance of power that favors freedom) – finì per generare molteplici cortocircuiti, esponendo le ineludibili contraddizioni del modello di egemonia costruita dagli Stati Uniti post anni Settanta. Contraddizioni che molto spiegano di questi ultimi vent’anni e del fallimento della politica estera statunitense post 11 settembre. La mobilitazione dell’opinione pubblica interna per il tramite di un discorso nazionalista ed eccezionalista ha finito per alienare gran parte del resto del mondo, come ben evidenziato dall’immensa impopolarità di Bush fuori dai confini statunitensi. L’unilateralismo ha generato resistenze crescenti e prodotto alcune straordinarie sconfitte diplomatiche, su tutte quella al Consiglio di sicurezza dell’Onu quando a inizio 2003 gli Stati Uniti non riuscirono a ottenere una seconda risoluzione che autorizzava l’uso della forza in Iraq. L’effettiva spendibilità dello strumento militare si è scontrata con conflitti asimmetrici, come quelli afghano e iracheno, dove tale superiorità si dimostrava meno significativa e, ancor più, con la crescente indisponibilità dell’opinione pubblica interna a sostenere i costi umani e materiali della guerra (che l’amministrazione Bush cercò vanamente di occultare).

La rivendicazione eccezionalista di un primato ideale e finanche morale ha finito per cozzare contro la frequente indisponibilità a sottostare ai dettami del diritto internazionale e, ancor più, con quella notte della ragione che dopo l’11 settembre ha indotto a giustificare e praticare forme di tortura e di arresti e deportazioni arbitrarie, simboleggiati dall’esperienza del carcere di Guantanamo. Alte spese militari e riduzione del gettito hanno messo ancor più in difficoltà conti pubblici già in sofferenza, laddove i consumi a debito – alimentati da deregulation finanziaria e credito facile – finivano per costituire una sorte di cruciale, ancorché indiretto ammortizzatore sociale, poggiante su una insostenibile bolla speculativa.

Queste mille fragilità interagivano con quelle di un contesto internazionale caratterizzato da forme d’integrazione, su tutte quella tra gli Stati Uniti e la Cina (che entrò ufficialmente nell’Organizzazione mondiale del commercio l’11 dicembre 2001), tanto profonde quanto a loro volta contraddittorie. Nelle sue molteplici forme e manifestazioni, la potenza statunitense ha costituito il fattore e la spinta fondamentale dietro tali processi: l’elemento che più ha definito la natura e la grammatica della globalizzazione. E però quella combinazione di eccezionalismo, unilateralismo e fiducia nella forza quasi palingenetica dello strumento militare – così manifesta nelle scelte e nelle strategie adottate dopo l’11 settembre – ha finito anch’essa per delegittimare e mettere in crisi l’ordine globale contemporaneo. Una crisi esacerbata poi da vari passaggi, non attribuibile certo solo a colpe statunitensi, ma sotto il cui cono d’ombra ancora viviamo, come i recenti fatti afghani e questo anniversario si premurano oggi di ricordarci.