Dal tavolo del negoziato alla ratifica. Che si raggiungesse un accordo sull'uso dell'energia nucleare tra la Repubblica islamica dell'Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, più la Germania, non era affatto scontato. Le forze che vi si opponevano – e che continuano a farlo – sono molte e ben armate: Israele, purtroppo egemonizzato dalla destra sionista per cui ogni rivale è una "minaccia esistenziale" alla propria sopravvivenza; Arabia Saudita, la cui nuova classe dirigente teme di perdere l'appoggio strategico di Washington a fronte di un'incapacità squisitamente politica e sociale di farsi leader del mondo arabo e sunnita; la destra repubblicana oltranzista statunitense, ancora fissata in una visione manichea della società e delle relazioni internazionali e determinata a sfruttare ogni occasione per attaccare il presidente Obama.

Altri Paesi si esprimono in modo più sfumato, salutando un accordo che da un lato elimina l'ennesimo fattore di escalation militare in Medioriente, dall'altro apre nuove possibilità di entrare nel grande mercato iraniano. Troviamo qui Paesi come il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait o lo stesso Egitto e la Turchia: sebbene si oppongano politicamente e ideologicamente all'Iran, hanno ben compreso da tempo che non guadagnano granché dall'aggravarsi della tensione militare e dalla tutela troppo stretta e spesso inefficace dell'Arabia Saudita. I Paesi europei salutano invece l'accordo perché finalmente elimina un focolaio di tensione nel già martoriato Medioriente e, soprattutto, perché sperano di rientrare nel mercato energetico, finanziario e di consumi dell'Iran. Significativa la visita del vicecancelliere tedesco a Teheran, opportuna politicamente ma che non mancherà di far pesare, e mettere a frutto, la mediazione svolta finora: la ferrea dottrina del mercantilismo tedesco prevede, e necessita, dell'attivismo diplomatico. Le aziende italiane, storicamente in prima linea, dovranno difendersi dalla concorrenza degli "amici" europei, statunitensi e dei Brics.


La Russia di Vladimir Putin, partner dell'Iran tanto "naturale" per geografia quanto diffidente per ideologia, è parte rilevante dell'accordo perché desidera dimostrare il suo ruolo di mediazione e "stabilizzazione" sia nei confronti dei Paesi mediorientali sia degli Stati Uniti e dell'Europa. Ma il presidente Putin ha investito molto nell'accordo anche per proteggere le relazioni con Teheran ed evitare che la ripresa dei contatti della Repubblica islamica e i Paesi occidentali, e soprattutto gli Stati Uniti, vada a detrimento delle buone relazioni politiche, militari ed economiche con Mosca.

Sono comunque gli Stati Uniti e l'Iran i grandi protagonisti dell'accordo. Il disgelo tra Washington e Teheran si basa su ragioni di opportunità strategica per entrambi i Paesi: se gli Usa desiderano veramente proseguire nel disimpegno militare diretto dalla regione, non possono continuare nella politica di contenimento di una potenza regionale quale l'Iran; se desiderano veramente contenere i movimenti jihadisti transnazionali non possono fare affidamento solo su Paesi arabi e/o sunniti, a causa dell'ambiguità delle monarchie del Golfo o della Turchia di Erdogan. L'Iran può essere un partner anche dei Paesi occidentali, ma non a qualsiasi costo o in posizione subordinata L'Iran si ritiene spesso più grande e potente di quanto non sia in realtà, e le forze ideologiche e bellicose non mancano di certo nel regime islamista e nella società iraniana. Tuttavia, l'Iran rimane oggi l'unico Paese nella regione che riesce a combinare una forte tradizione istituzionale, prima imperiale poi statuale, con una grande capacità di mobilitazione politica e sociale data dalla sia tradizione rivoluzionaria, tanto laica quanto islamista, sia dalla ricchezza intellettuale della sua popolazione.

In definitiva, i costi economici, politici e diplomatici del suo contenimento sono diventati troppo alti a fronte di un'apertura di credito nei confronti dei Paesi occidentali da parte delle componenti più realiste della classe dirigente islamista, così come da parte della maggioranza della popolazione. Il Paese soffre delle sanzioni economiche internazionali e dei prezzi del greggio tenuti artificialmente bassi dai rivali sauditi, e i dirigenti devono rispondere in qualche modo al desiderio di apertura di una popolazione tanto giovane quanto "connessa" al mondo esterno.

Come accade spesso, una volta finito il braccio di ferro al tavolo dei negoziati diplomatici, inizia ora quello all'interno dei rispettivi Paesi per la ratifica degli accordi. E un buon accordo solitamente è quello che permette a entrambi i rivali di portare a casa gli elementi che ritengono "essenziali" per sostenerne la validità e la legittimità. Questo sembra essere il caso dell'accordo sul nucleare iraniano, come dichiarato dai presidenti Barack Obama e Hassan Rouhani. Due battaglie sono state vinte da coloro che sostengono la via del compromesso e del negoziato come soluzione alle contese politiche. Restano da vincere le battaglie "in casa propria", per proseguire nella strada di una prassi internazionale in cui i conflitti politici non devono per forza tradursi in scontri armati.

 

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