Lo scorso 13 giugno la Corte Suprema del Regno Unito ha pronunciato una sentenza che avrà importanti ripercussioni sull’economia delle piattaforme (o gig-economy). Il caso non riguardava le tanto chiacchierate Uber o Deliveroo, ma una società meno nota in Italia, la Pimlico Plumbers, che ingaggia idraulici come lavoratori autonomi tout-court (self-employed people) per poi far loro svolgere servizi presso i propri clienti. Gli idraulici ricevono indicazioni precise sulla condotta da tenere e su come interagire con i consumatori; guidano un veicolo e indossano uniformi con il logo della società; sono assoggettati a stringenti condizioni relative ai pagamenti e non possono fare concorrenza alla società stessa, obbligo che dura fino a tre mesi dalla fine del contratto. Inoltre, sebbene non abbiano l’obbligo di accettare i lavori proposti dalla Pimlico, devono assicurare un impegno di quaranta ore per settimana e informare anticipatamente i manager delle proprie assenze.

La Corte Suprema ha stabilito che il lavoratore ricorrente fosse quindi un worker, e non un semplice self-employed contractor. Nel Regno Unito i workers sono lavoratori che, seppur autonomi, “svolgono personalmente un lavoro o un servizio” nei confronti di un committente. In questo senso, ci sono deboli analogie con il nostro lavoro parasubordinato. A differenza che nel caso italiano, però, i workers hanno diritto al salario minimo legale (inesistente in Italia), alle ferie e alle altre tutele legali sull’orario di lavoro.

La sentenza ha respinto una delle difese chiave della società, che sosteneva che gli idraulici non fossero workers perché hanno la possibilità di farsi sostituire da altre persone nello svolgimento del proprio lavoro. Le substitution clauses che prevedono questa facoltà sono frequenti nel Regno Unito proprio perché la giurisprudenza ritiene che un lavoratore che possa farsi liberamente sostituire da un altro non svolga “personalmente” il lavoro, e quindi non sia un worker. Alcune settimane fa, i fattorini di Deliveroo a Londra si sono visti rifiutare lo status di workers proprio perché, pochi giorni prima, la piattaforma aveva inserito questa clausola nei loro contratti.

La Corte Suprema ha dichiarato che la substitution clause prevista dal contratto della Pimlico Plumbers non fosse abbastanza chiara. Non era evidente che il lavoratore potesse farsi sostituire liberamente da persone che non fossero colleghi già in forza presso la società. Solo altri idraulici tenuti a rispettare “lo stesso tipo di obblighi stringenti” imposti dalla Pimlico, infatti, potevano agire da “supplenti”. Insomma, la clausola non era sufficiente a escludere che gli idraulici dovessero eseguire il lavoro “personalmente” e, perciò, fossero workers.

Il giudice è quindi andato oltre il dato letterale del contratto al fine di  verificare che il potere di sostituzione fosse effettivo. Nel far questo, non ha mancato di notare come gli idraulici dovessero comunque rispondere a standard qualitativi stringenti imposti dalla Pimlico sia per quanto riguarda il servizio sia circa la propria generale condotta e il proprio abbigliamento.

L’esistenza di uno “ferreo controllo” sul lavoratore ha avuto un peso rilevante nel giudizio della Corte. Questo controllo, per il giudice, “si rifletteva nell’obbligo di indossare l’uniforme della Pimlico, guidare un furgone con il logo [della società], cui Pimlico applicava un tracker [GPS], di portare con sé il proprio documento d’identità, e di seguire strettamente le istruzioni amministrative” della società stessa. La possibilità della Pimlico di decidere i tempi e le somme da pagare al lavoratore, inoltre, era incompatibile con lo status di lavoratore autonomo tout court.

La sentenza è molto interessante per vari motivi.

Innanzitutto, il caso rivela come la gig-economy non sia affatto confinata, come spesso si ritiene, agli autisti di Uber, ai fattorini di Foodora e Deliveroo o ai tuttofare di Taskrabbit. L’utilizzo di personale qualificato “sulla carta” come autonomo, ma controllato minuziosamente tramite strumenti digitali, in maniera simile a quanto accade ai lavoratori standard, è esteso a tante altre forme di prestazione, come il lavoro da remoto dei cosiddetti crowdworkers, il lavoro domestico nelle case dei clienti delle piattaforme e anche il lavoro degli idraulici o degli addetti alla manutenzione.

In secondo luogo, il giudice si è dimostrato consapevole che, per regolamentare questo tipo di servizi, non basta fare affidamento sul dato letterale delle singole clausole contrattuali. Viceversa, occorre concentrarsi su tutti gli elementi del rapporto di lavoro in concreto. Questi elementi, letti complessivamente, spesso indicano un livello di controllo esercitato dalle società che è incompatibile con la scelta di qualificare i lavoratori come autenticamente autonomi.

La presunta facoltà dei lavoratori di farsi sostituire liberamente o di rifiutare singoli lavori non esclude l’esistenza di questo controllo pervasivo e, anche a livello di politica del diritto, non giustificano l’esclusione dei lavoratori dal novero delle protezioni lavoristiche.

La sentenza della Corte Suprema, come pure la pronuncia del tribunale spagnolo che ha dichiarato che i fattorini di Deliveroo sono lavoratori subordinati perché sottoposti a controlli stringenti da parte della piattaforma, valorizzano quindi tutti gli elementi del rapporto tra società e lavoratori, non soffermandosi esclusivamente, come altre pronunce – anche in Italia – su elementi estrinseci come la flessibilità oraria o le substitution clauses.

Siamo solo agli inizi dell’elaborazione giurisprudenziale sul lavoro tramite piattaforma, ma la Corte Suprema, in Pimlico Plumbers, sembra tracciare la strada corretta. Andare oltre il puro formalismo contrattuale e analizzare i rapporti di lavoro nella loro complessità sembra un approccio irrinunciabile per evitare che sempre più lavoratori siano esclusi, immeritatamente, dalle protezioni giuslavoristiche.

 

 

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