Giappone, la «Costituzione americana» Alle elezioni politiche di domenica 22 ottobre il primo ministro del Giappone Shinzo Abe ha vinto alla grande: il suo Partito liberal-democratico (conservatore) ha ottenuto una bella maggioranza alla Camera dei rappresentanti, e una delle cose che spera di fare subito è rivedere la clausola pacifista della Costituzione. In modo da rendere esplicita la legittimità delle forze armate che già esistono, consistenti e modernamente equipaggiate. Ma che non dovrebbero esserci. E che comunque, come dice il timido nome, Forze di Autodifesa, sono limitate nei compiti territoriali e logistici.

Per farlo, per emendare la Costituzione, Abe avrà bisogno di «supermaggioranze» in Parlamento, i due terzi dei voti in entrambi i rami della Dieta nazionale (formata, oltre che dalla Camera dei rappresentanti, dalla Camera alta o Camera dei consiglieri) e di una maggioranza del voto popolare nel referendum di ratifica. Dovrà quindi convincere l’opinione pubblica, che è preoccupata per le crescenti tensioni militari dell’area, per i missili nordcoreani che volano (e sorvolano) di qua e di là, per l’incertezza sulle assicurazioni di protezione americana.

La clausola costituzionale in questione è l’articolo 9, che recita così: «Aspirando sinceramente a una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra quale diritto sovrano della Nazione, e alla minaccia o all’uso della forza quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. Al fine di conseguire lo scopo del comma precedente, non saranno mantenute forze militari terrestri, marittime e aeree, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto».

È da anni che di questo articolo 9 si discute con vivacità. C’è chi lo difende in nome dell’antimilitarismo (anni fa qualcuno riuscì persino a candidarlo, con un escamotage, al premio Nobel per la pace) e chi invece desidera eliminarlo per consentire al Paese di partecipare pienamente e attivamente ad accordi militari di sicurezza collettiva al di fuori del territorio nazionale – un desiderio condiviso anche dagli Stati Uniti. Quegli stessi Stati Uniti che a suo tempo lo imposero al Giappone, insieme alla sua intera Costituzione, entrata in vigore il 3 maggio 1947.

Il paradosso è evidente, e vale la pena raccontare un po’ di storia. Come gli altri due Paesi usciti battuti dalla Seconda guerra mondiale e che in seguito alla sconfitta cambiarono regime politico e si democratizzarono, la Germania e l’Italia, anche il Giappone fece ammenda dei suoi peccati guerrafondai. E proprio come la nuova Repubblica federale tedesca e la nuova Repubblica italiana, incorporò il pentimento e la redenzione nella sua Carta fondamentale, che è quindi «pacifista». Una Carta che, in maniera più radicale di quelle di Italia e Germania, fu letteralmente scritta dai vincitori.

Gli americani scrissero la Costituzione del Giappone mentre il Paese, dopo la resa incondizionata, era sotto occupazione militare ed era governato dal generale Douglas MacArthur. La scrissero in fretta e furia, in una settimana, e vi inserirono molte cose che derivavano dalla loro storia, dai principi e dal linguaggio dei loro documenti fondanti, ma anche dalle loro più recenti esperienze riformatrici. Gli autori, membri dello staff di MacArthur, erano infatti freschi di New Deal, di riforme politiche e sociali, del nuovo liberalism rooseveltiano.

La Costituzione giapponese, benché di fatto octroyée, è quindi una delle grandi Costituzioni «progressiste» del secondo dopoguerra. È un mix curioso di americanismo rivoluzionario, newdealista, monarchico. La monarchia, infatti, non fu toccata. L’imperatore restò il simbolo della nazione, ma solo con funzioni cerimoniali. Il potere esecutivo fu attribuito a un Gabinetto guidato da un primo ministro, espressione della maggioranza politica che si forma nella Dieta. Il modello adottato fu quindi quello Westminster inglese, non il presidenzialismo statunitense.

Ma poi l’America si rivela. Il testo costituzionale, che traduco dalla traduzione inglese «ufficiale» (che magari è la versione originale?), comincia con un solenne e familiare «We, the Japanese people». E poi prosegue con un linguaggio dei diritti individuali che copia o ricalca le enunciazioni dell’epoca rivoluzionaria di fine Settecento. I titoli nobiliari sono aboliti. L’autorità del governo «è derivata dal popolo». I diritti alla libertà di religione, associazione, parola e stampa, pensiero e coscienza sono inviolabili; e così quelli di proprietà. «Nessuno sarà privato della vita e della libertà» se non secondo regolari procedure di legge. Gli accusati hanno «il diritto a un processo rapido e pubblico» e a non trovarsi in «double jeopardy» – cioè a essere processati due volte per lo stesso delitto.

Il linguaggio diventa rooseveltiano quando si parla di diritti sociali e del ruolo dello Stato. C’è il diritto di vivere «liberi dalla paura e dal bisogno». Il diritto all’istruzione e al lavoro. Il diritto dei lavoratori a organizzarsi e a fare contrattazione collettiva. L’eguaglianza dei sessi. In tutte le sfere della vita «lo Stato farà gli sforzi necessari per promuovere ed estendere la sicurezza sociale, il Social Welfare e la salute pubblica». Il sacro e individualista «right to life, liberty, and the pursuit of happiness» è salvaguardato ma limitato – «nella misura in cui non interferisce con il bene pubblico».

E infine, per tornare all’inizio, c’è l’obbligo e la promessa del disarmo totale e perpetuo. E qui il linguaggio è quello della brutale sconfitta nella guerra e delle speranze del dopoguerra. Ora, dopo settant’anni, l’obbligo sarà anche venuto meno. E la promessa, in un mondo troppo diverso da allora, sarà probabilmente disattesa.

 

[Questo articolo è pubblicato anche su Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi]

 

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