A Genova Marco Bucci viene rieletto sindaco a mani basse, senza che nessuno – avversari compresi – avesse mai pensato potesse succedere il contrario. Gli avversari riuniti e apparentemente riappacificati in un fronte largo dai 5 Stelle al Partito democratico non riescono nemmeno a sfiorare il ballottaggio.

Se è vero che tra le strade di Genova l’esito era dato per scontato, è vero anche che sigla un punto nella transizione della città e del suo elettorato e fa i conti con gran parte della storia recente. Molti a Genova dicono che Bucci ha vinto perché è considerato “l’uomo del ponte” – per la velocità di reazione, la modalità anche narrativa e mediatica con cui l’emergenza è stata gestita – diventando catalizzatore di un consenso (quasi) trasversale. Ma questa non è una spiegazione sufficiente a capire la lunga durata di questo cambiamento e delle sconfitte del centrosinistra genovese.

Il primo dato è che la vittoria di Bucci è, in primo luogo, una sua vittoria, prima che delle liste e delle componenti politiche nazionali che lo sostengono, sebbene ideologicamente e politicamente Bucci si ponga chiaramente in continuità con il centrodestra, rappresentandone la faccia rinnovata e pulita di uomo del fare. Una politica imprenditoriale e depoliticizzata: dei “fatti”, delle (grandi) opere, delle infrastrutture e dei progetti, una politica di un movimento più o meno illusorio della città, anche quando tutto è fermo.

Inoltre, la vittoria di Bucci è intimamente legata a quella del presidente di regione Giovanni Toti: i due firmano un sodalizio politico, ideologico ed estetico e condividono una visione molto simile di Liguria e capoluogo. Sono capaci di allineare gli attori, i poteri e le élite e governano con facilità una città in cui il conflitto si fa sempre più sotterraneo e il consenso curato nei minimi dettagli. Entrambi hanno avuto la capacità di costruire un consenso profondo intorno alle loro figure – soprattutto il sindaco –, anche laddove fino a dieci anni fa sembrava impossibile. Le radici delle ragioni di questo consenso e di queste vittorie vanno cercate lungo i dieci anni di questa città, tra cui le scelte (e le non scelte) del centrosinistra genovese che piano piano ha dovuto fare i conti con il fatto che vincere non era più scontato e, anzi, era diventato difficilissimo.

Il regime urbano-regionale di Bucci e Toti nasce dalla ricerca e dall’ottenimento del consenso, dato dal buon funzionamento della ricetta proposta: oltre al tema permanente delle infrastrutture e delle (grandi) opere, si concentra nella costruzione di una “città carina” a misura del suo elettorato, che porti ottimismo e, successivamente, turismo, progetti di “abbellimento e riqualificazione” a bassa intensità – tanto nei quartieri periferici quanto e soprattutto in quelli considerati agiati – strizzando l’occhio tanto alle élite genovesi quanto a quelle milanesi e lombarde, perché Genova è comunque il più bel sobborgo di Milano – creando un consenso che travalica i confini.

Che cosa manca alla ricetta Bucci-Toti? Mancano le minoranze, gli esclusi, gli invisibili. Perché, si sa, gli interventi strutturali di lotta alle diseguaglianze politicamente pagano meno

C’è chiaramente una politica per le classi agiate, ma anche per la classe media; e uno sguardo per la classe “più bassa” che si manifesta negli interventi della vita quotidiana, nelle manutenzioni più o meno ordinarie, nella politica di quartiere, nella presenza sua e dei suoi sostenitori sul territorio e sui social network, negli eventi e nelle feste, nel ridurre il più possibile il margine di errore e di polemica. Politica per le classi medio basse che sembra essere motivata esclusivamente dalla ricerca del consenso e non alla struttura. Consenso che poi ottiene.

Che cosa manca alla ricetta Bucci-Toti? Mancano le minoranze, gli esclusi, gli invisibili. Perché un politico furbo – di centrodestra – sa che gli interventi strutturali di lotta alle diseguaglianze politicamente pagano meno. Bucci ha saputo affascinare, facendosi portatore di interessi trasversali che riescono a catalizzare il consenso intorno alla sua persona, afferrando quale fosse l’elettorato forte della città, come conquistarlo e mantenerlo negli anni. Ha saputo separare politica come gestione e amministrazione e politica come ideologia, ha avuto la capacità di stare contemporaneamente dentro e fuori le dinamiche del centrodestra, dinamiche nazionali che sembrano interessargli molto poco. Non si è mai mostrato vulnerabile o non sicuro che avrebbe riottenuto l’elezione, non ha mai avuto dubbi lui per primo. E l’elettorato l’ha seguito.

Si legge in questo allineamento degli attori e delle élite genovesi intorno al sindaco un mutamento dell’élite genovese che si è ritrovata, nel giro di poco più di un decennio di centrodestra, meno solidale, meno politicizzata, più economica ed economicistica, meno intellettuale, più imprenditoriale. A un certo punto all’interno del centrosinistra genovese si è rotto qualcosa su più livelli, dalla dirigenza del partito ai movimenti, passando per tutto quello che sta in mezzo e permette di vincere le elezioni.

Il 2012, l’epoca dei sindaci arancioni, è stato in un certo senso un apice, per la sinistra e il centrosinistra genovese in cui c’era la piazza, c’era il coinvolgimento, c’era la solidarietà, c’era la conferma di quella Genova antifascista di lunga durata. Nel 2012 c’era la percezione di un movimento trasversale e intergenerazionale, di cui le generazioni più giovani erano protagoniste. Poi una caduta più o meno libera. Una discesa in bici senza mani. La crescita del Movimento 5 Stelle, il renzismo che attraversa il Partito democratico e crea fratture ancora difficili da rimarginare: la candidatura nel 2015 alle regionali di Rossella Paita che rompe il fronte del centrosinistra, la quale oggi, a capo di Italia Viva, si schiera ufficialmente con il centrodestra, levandosi ogni dubbio.

Quella rottura non fa che aggravarsi, elezione dopo elezione, e il centrosinistra sembra non essere in grado di proporre un’alternativa convincente: siamo alla quarta sconfitta consecutiva del centrosinistra genovese (e ligure) – 2022, 2020, 2017, 2015 – che sembra immobile e inerte davanti a due uomini del fare e non riesce a contrapporre figure altrettanto carismatiche – così come non lo erano gli ultimi sindaci espressione dell’area. Le aree di partecipazione dei più giovani si svuotano e anche i movimenti studenteschi non stanno benissimo. Quel protagonismo giovanile si frastaglia e in una sua parte si ritira. Il centrosinistra non è capace di tenere vicino a sé i suoi giovani e il ricambio generazionale – a Genova così come a livello nazionale – si fa difficile. Contemporaneamente la società civile, storicamente forte a Genova, in questi anni si è frammentata.

Tuttavia, nel capoluogo ligure il ricambio generazionale non è solo mancato all’interno del centrosinistra ma attraversa l’intero tessuto urbano: molto si è detto e si è scritto sulla crisi demografica che ormai stabilmente colpisce una città che ogni anno si restringe un pezzettino e invecchia sempre di più. Questo Bucci l’ha capito e ne ha tratto vantaggio, mettendo insieme una proposta politica che si adeguasse a questo cambiamento e che rispondesse a questa transizione demografica e sociale. Non cercando di invertire la tendenza ma piuttosto dando ascolto a questa Genova un po’ più anziana e conservatrice, rispondendo fin dall’inizio della sua azione amministrativa e della campagna elettorale – anche se la stessa azione amministrativa alla fine è da molto tempo confusa con la stessa campagna elettorale – al bisogno di essere rassicurati.

È vero, però, che questa immagine apparentemente compatta viene incrinata dal dato sull’astensionismo in crescita (44,17% della popolazione ha votato nel 2022 in calo rispetto al 48,39% del 2017 e soprattutto al 55,52% del 2012) e dagli errori ai seggi elettorali. Allo stesso modo, qualcosa ci dice anche il voto espresso dai Municipi nello specifico la stessa Valpolcevera, dove si trovò la zona rossa del ponte Morandi, che – pur nelle sue radici rosse – mantiene il voto al centrosinistra.

Una città diseguale e territorialmente polarizzata, dove la ricetta politica proposta è quella fatta di interventi che nascondono il conflitto, lo coprono e fanno finta di non vederlo in nome dell’efficientismo e della praticità

Oggi Genova continua a essere una città diseguale e territorialmente polarizzata e la ricetta politica proposta è quella fatta di interventi che nascondono il conflitto, lo coprono e fanno finta di non vederlo in nome dell’efficientismo e della praticità. Resta l’incapacità di guardare sotto, ai processi in profondità e provare a invertire la rotta, oltre che a trarne vantaggio.

Dal 2012 non sembrano passati 10 anni, sembra trascorsa un’era, per quanto riguarda gli equilibri politici, la composizione sociale della città: l’emergenza legata al ponte Morandi ha accelerato e reso più visibile questo processo di cambiamento. La domanda che resta aperta è se di fronte a questo quadro chiaro di transizione si nascondano linee di continuità tra le diverse stagioni politiche della città.

Il fattore Bucci, il ponte Morandi e l’intreccio di queste variabili sono state una componente fondamentale, ma non l’unica, di questa trasformazione di Genova e del suo elettorato.