Sollevare l’elmo e aprirsi all’altro avendo attraversato il fiume sino alla riva che non è la nostra, mentre l’acqua, l’altro, il confine attraversato, la fronte scoperta segnano una soggettività che affronta un destino incerto ma necessario, che ridefinisce relazioni e futuro. Franco Cassano, autore di questa immagine, a lui molto cara, è stato intellettuale, sociologo, riformatore, cultore di teoria e democrazia, militante non settario: sempre idealmente dalla parte dei deboli, non ha concepito distacco o scissione da un impegno storicamente legato alla trasformazione sociale, in un pensiero non consolatorio e mai concluso. Dalla sezione universitaria comunista alla cittadinanza attiva di Città plurale, entrambe di Bari, città simbolo di tante città e di tanti Sud, in una realtà nella quale mezzogiorno, mediterraneo, meridionalismo, hanno assunto identità, significati, legami, consapevolezze, potenzialità diversi dal passato, Cassano ha segnato la strada di una lunga stagione i cui attori di volta in volta ne sono divenuti parte, rispondendo a una chiamata, come la vocazione di Matteo del Caravaggio, nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma che Franco, quando poteva, amava visitare, simbolo di un Beruf fissato nella storia. Ma quella chiamata, quel Beruf non si concludevano in sé, ma erano solo l’inizio di una nuova lunga drammatica turbolenza, interiore ed esteriore.

La lettura e le parole dei testi, con i quali lavorava come in una enigmistica continua, erano premessa di analisi libera e ininterrotta, anche se il suo debito con la tradizione sociologica lo aveva pagato appena nell’università con il lavoro su Weber, Mills, Habermas (1971), in una scelta di studio segnata, come dichiarato in un colloquio lontano, dal fatto che Weber era stato ed era per lui verifica continua, «il grande», «quello cui devo tanto e sento sempre di dover tornare».

Franco il suo esame di «ammissione» nella comunità scientifica non lo fece con un concorso universitario, metodo mai amato ma forse necessario di cooptazione, ma con Marxismo e Filosofia (1971) testo ormai dimenticato, di un'editrice meridionale anch’essa dimenticata, la De Donato, che riproponeva testi e discussioni svoltisi sulle pagine di riviste comuniste, di difficile memoria, «Rinascita» e «Il Contemporaneo». E Franco, a trent’anni osò riflettere e confrontarsi con il cuore del marxismo e della politica, aprendo una riflessione, ai limiti dell’eresia per i suoi caratteri, a un retroterra che a Gramsci e Marx sommava anche Della Volpe e Panzieri, e che in quella semplice aggregazione di testi, ristrutturava i termini dell’analisi sociale. Fu un esordio silenziosamente fragoroso, compreso, non so quanto condiviso, allora e nel seguito del percorso, da amici con i quali sarebbe rimasto un rapporto di affetto fraterno sempre, di stima reciproca continua, di distanza teorica frequente, Beppe (Vacca), Gino (de Giovanni), Giuseppe (Cotturi), Peppino (Caldarola), Franco (de Felice), tutti parte, individuale e collettiva, della storia del marxismo e della democrazia in Italia.

La sua ricerca appassionata iniziava nelle librerie: avendo fatto della interdisciplinarità la madre delle sue categorie, frugava tra i libri con una curiosità che era strategia di costruzione della riflessione

La sua ricerca appassionata, apparente tradimento o addirittura negazione di tradizioni profonde, quasi sacre, iniziava nelle librerie: avendo fatto della interdisciplinarità la madre delle sue categorie, frugava tra i libri con una curiosità che era strategia di costruzione della riflessione, dell’analisi e della comunicazione, dalla narrativa alle scienze sociali, alla letteratura e alla storia, piegando tutto, e raccogliendo, rigo dopo rigo, periodo dopo periodo, suggestioni per l’interpretazione della modernità in un contatto continuo tra senso comune e scienza. È stato un colloquio con autori emblematici del loro mondo, spesso inattesi, Pasolini, Fortini, Camus, Weil, Rossanda, Leopardi, passaggio simbolico il cui antecedente era stato un altro grande marxista a suo modo irregolare, Cesare Luporini, che aveva anche osato dialogare con «il mondo magico» meridionale, e poi altri e altri ancora.

In coerenza con questo, Franco Cassano, pur consapevole del suo ruolo, non amava definirsi sociologo; sentiva questa definizione, forse l’immanenza della disciplina, troppo stretta per la riflessione condotta e per una sensibilità che entrava in rapporto con universi spesso ancora lontani dai mondi più tradizionali che frequentava, il femminismo prima di tutti. E i suoi lavori, tutti, dal Teorema democristiano a Senza il vento della storia, sono in qualche modo costruiti in modo non tradizionale, ricchi di notazioni interne al testo, a inseguire il filo centrale del discorso e le sue connessioni a volte appena accennate, spesso tracce di culture lontane ma riconoscibili e da riconoscere. Molto prima della discussione sui migranti le rive del Mediterraneo e i popoli di quelle terre riacquisirono la connotazione di contesti comuni e di fratelli, in una idea di cittadinanza, presenza, partecipazione, che sovrastava ogni limite esclusivo.

Nelle aule universitarie di Bari, e nelle tante dove è stato chiamato a fare lezione, ha contribuito alla formazione di tanti studenti, in un lavoro mai divenuto routine

Franco Cassano, nelle aule universitarie di Bari, e nelle tante dove è stato chiamato a fare lezione, ha contribuito alla formazione di tanti studenti, in un lavoro mai divenuto routine, e la sua sociologia lo aiutò in una rigorosa direzione de la «Rassegna Italiana di Sociologia», in una fase che, con l’avallo della sua casa editrice, raccolse nella redazione parte dei migliori esponenti della sociologia italiana, in una aggregazione che univa i percorsi teorici di sociologi come Franco Crespi, Margherita Ciacci, Pierpaolo Giglioli, Loredana Sciolla, Chiara Saraceno, con quelli di un gruppo di colleghi più giovani, miscelando esperienze e approcci analitici diversi, scienza, confronti, tutti cementati da stima reciproca, sensibilità, anche affetto.

La riflessione meridiana, centrale nella sua esistenza e nella sua attività, fu così la maturazione di premesse evidenti, in una riacquisizione di centralità e autonomia del Sud, risorsa struggente, carica di orgoglio e di impegno, di speranza e necessità, di opportunità e scelta, consapevole che molti, anche importanti, avevano trovato modo di abdicare a questo e che si trattava di una difficile ma necessaria operazione di riequilibrio, di riconquista di un lessico che aveva visto esaurirsi quello del meridionalismo storico e il suo soggetto politico naturale, di fatto sbiadito, spesso silenzioso, ormai lontano dai luoghi delle necessarie trasformazioni. In tanti volevano conferma che quel lessico e quel soggetto non fossero scomparsi, e che invece si stavano ristrutturando per poter tornare all’altezza dei tempi e delle necessità, in una presenza nuova in grado di raccogliere disponibilità antiche. Uno sguardo, un pensiero quelli di Franco che «andavano oltre», inseguendo l’equilibro drammatico dell’esistenza e da questo colpiti, irregolari rispetto a un senso comune teso alla tranquillità.

Avrebbe potuto essere un intellettuale aristocratico, è stato uomo popolare, amante del calcio, dei cani, del verde, in un rapporto di amore verso gli altri, tutti, forse alcuni in particolare, intoccabili: Bari, la Puglia, il mare, certo; e ancora di più, Luciana, Peppe, e Rossella, Linda, Elisa, tra presente, ricordi e futuro.