A qualche giorno dal rientro di papa Francesco dall’Iraq la sensazione immediata è che si sia trattato di un viaggio importante. Più difficile dare contorni precisi a questa prima impressione, anche perché il senso di questo pellegrinaggio – come lo ha definito Francesco – guarda ai tempi lunghi di trasformazioni effettive e concrete. Un viaggio fortemente voluto dal papa: proprio ora, proprio qui. Certo, un tratto caratteristico della sua personalità e della spiritualità gesuita che la innerva: si ascoltano le varie considerazioni in merito, si prega e si fa discernimento, poi si decide assumendosi la responsabilità della scelta. A supporto di essa, Francesco ha trovato una sponda significativa nel segretario di Stato vaticano, il card. Parolin – uomo attento e capace nel suo mestiere diplomatico: l’urgenza complessiva dell’ora presente si imponeva anche davanti ai rischi implicati nel recarsi in Iraq.

Per iniziare a comprendere la portata di questo viaggio, prima ancora di guardare a cosa è successo nel breve arco di tempo della sua permanenza nella regione mesopotamica, bisogna entrare nelle coordinate geopolitiche che disegnano le strategie e gli interessi che confluiscono in questa parte del nostro mondo attuale. Perché l’Iraq è il punto di incrocio non solo di forze che collidono tra loro per lo sfruttamento di risorse naturali e la loro commercializzazione attraverso viadotti sotterranei fino ai porti del Mediterraneo, ma anche quello delle diverse visioni sull’islam globale e delle sue distinzioni internein primis, quella fra mondo sunnita e sciita.

Le potenze attive nella regione mediorientale, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Arabia Saudita all’Iran, dalla Gran Bretagna alla Francia, giocano la loro partita guardando esattamente all’Iraq come al terreno conteso fra tutte. I drammi umanitari della Siria e del Libano, condannati a parole ma poi alimentati nei fatti, sono funzionali a questa contesa. La stasi globale della pandemia non ha certo fermato le ambizioni di queste potenze e dei loro interessi; anzi, ha permesso di portarle avanti sottotraccia mentre tutto il mondo aveva ben altro di cui preoccuparsi.

Una situazione che ha fatto sciogliere ogni riserva di prudenza anche sul versante della segreteria di Stato: il viaggio in questo momento non era solo opportuno, ma anche necessario e non dilazionabile. Anche perché era importante chiudere il cerchio dell’interlocuzione con l’islam in vista di un’alleanza religiosa per la fraternità umana e la pace nel mondo. Dopo l’incontro al Cairo con la principale autorità teologica sunnita Ahmad al-Tayyeb, e dopo la firma del Documento di Abu Dhabi, era impellente, per un giusto equilibrio di questo progetto religioso che ha ampie ricadute geopolitiche e culturali sugli assetti globali, incontrare il mondo dell’islam sciita più sintonico con l’approccio di Francesco al ruolo e alla responsabilità delle religioni nel contesto attuale.

Quello in grado di offrire un’alternativa interna all’islam davanti alle linee maggiori dell’imperialismo (Arabia Saudita), dell’apocalisse (Isis) o della teocrazia (Iran). L’incontro con il Grande Ayatollah al-Sistani, punto di riferimento teologico e spirituale dell’islam sciita che non si rispecchia nella sua versione iraniana, si iscrive in questo quadro volto a favorire un’accettazione interna dell’islam come religione plurale, diversificata e variegata nelle sue espressioni. Accettazione fondamentale per fare dell’islam un protagonista maggiore di quella fraternità umana che sintetizza la visione globale di papa Francesco.

Ora, forse, diventa un po’ più facile dare qualche contenuto di fondo all’impressione immediata della portata storica del viaggio di Francesco in Iraq. Essere pellegrino di fraternità in una terra che accomuna nella sofferenza sunniti e sciiti, cristiani e yazidi, curdi e arabi, dice la dimensione rivoluzionaria e di rottura con le logiche imperanti della cura sul mondo che Francesco ha assunto sulle sue spalle, per condividerla con chiunque se ne senta accomunato nell’aspirazione e nell’orizzonte possibile che essa dischiude. Esserlo nella terra di Abramo, nella patria memoriale dei tre grandi monoteismi mondiali, dice della responsabilità che queste religioni non possono più scansare davanti all’idolatria della violenza e del sopruso perpetrati in nome di Dio.

Come notato da un commentatore americano, il viaggio in Iraq ha rappresentato la visualizzazione e la realizzazione in gesti concreti e atti simbolici dell’enciclica Fratelli tutti. Un papa esegeta di se stesso, che trova però inedite alleanze proprio laddove le potenze si impegnano a dividere e contrapporre, perché la realizzazione della fraternità è sempre un atto sovversivo che si oppone all’ordinamento imperante come l’unica opzione possibile.

Ecco che le tappe del viaggio intenso ed estenuante di un pellegrino si incastonano l’una nell’altra in un insieme dove nulla è lasciato al caso: l’incontro a Baghdad con le autorità politiche e la Chiesa irachena; il tragitto fino a Njaf per visitare nella sua casa il Grande ayatollah al-Sistani, il «saggio di Dio» come lo ha definito Francesco (nella quale, per la prima volta, è entrato il presidente di uno Stato); la sosta sulla piana di Ur per la celebrazione interreligiosa; la tappa che lo ha condotto nel Kurdistan iracheno martoriato dalla furia apocalittica e distruttiva dell’Isis, con la preghiera a Mosul in suffragio di tutte le vittime di questa cieca violenza; la visita alla comunità cattolica di Qaraqosh, con le sue testimonianze della prossimità fra cristiani e musulmani; il rientro a Roma di un papa che ha la sua sede nelle periferie del mondo – da Lampedusa (primo viaggio) a Bangui (apertura della porta santa per il Giubileo della misericordia).

Rientrando a Roma, Francesco ha espresso il desiderio di potersi recare presto in Libano; e rimane ancora quello di andare in Sud Sudan insieme al primate della Chiesa anglicana, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby – momentaneamente accantonato per l’esplosione della pandemia. Davanti al primato della fraternità, anche il primato del vescovo di Roma è chiamato a condividersi con le Chiese cristiane e con le religioni – perché l’intero è sempre più importante della parte.

Apparentemente spontaneo, fino all’impulsività, il ministero petrino di Francesco ha invece una coerenza straordinaria: l’uomo sa dove andare e dove desidera condurre questo nostro mondo; e si muove di conseguenza con una coerenza senza pari – forse, oggi, è l’unico a farlo sulla grande scena globale.