Il 5 giugno scorso sul «New England journal of medicine» (Nemj) è uscito uno studio sull’efficacia di un anticorpo monoclonale per la cura di un tipo particolare di adenocarcinoma rettale: il dostarlimab.

I risultati mostrano che tutti i 12 pazienti trattati e seguiti per 6 mesi oggi non hanno segni di tumore. Per questa patologia attualmente si impiegano la chemioterapia e la chirurgia, con effetti pesanti sulla qualità della vita di chi sopravvive, mentre un anticorpo monoclonale avrebbe un impatto assai meno devastante. Lo studio è stato realizzato da un gruppo del prestigioso Memorial Sloan Kettering Cancer Center e pubblicato dalla rivista con il più alto ranking in campo medico. Una bellissima notizia che, infatti, il «New York Times» ha ripreso lo stesso giorno con un articolo chiaro e accattivante, corredato della foto di una delle persone arruolate nello studio. La giornalista ha sottolineato che lo studio è piccolo e che «va replicato», ma dà speranza a tanti malati.

Per come funziona la medicina scientifica, si tratta di una bella notizia per la ricerca, ma non per i pazienti che la leggono oggi o, comunque, prevalentemente non per loro. Il problema è che l’efficacia di un farmaco deve essere accertata con un iter molto articolato. L’articolo del Nemj è uno studio di fase II, in cui la nuova molecola viene testata su un piccolo numero di pazienti; se uno studio di fase II come questo ha buoni risultati, allora si passa alla fase III che consiste in uno studio randomizzato e controllato (Rct) che coinvolge centinaia di persone in più centri di diverse parti del mondo, assegnati casualmente al nuovo trattamento o a quello standard. È poi necessario un ulteriore tempo di monitoraggio prima dell’approvazione da parte delle agenzie di regolazione del farmaco, come la Fda (Food and drug administration) negli Stati Uniti e l’Ema (European medicine agency). Senza contare la ricerca di base precedente, da cui viene l’idea del meccanismo della nuova molecola, un trial clinico oncologico che dura mediamente quattro anni in tutte le sue fasi. E queste poche righe bastano a collocare la speranza per i malati, sottolineata dal «New York Times», in un futuro non vicinissimo, almeno per gli standard di una persona malata di tumore.

La notizia del dostarlimab – un esempio tra le tante di questo tipo – solleva domande intuitive tra i non addetti ai lavori, che individuano problemi importanti anche per metodologi, medici, amministratori e, da ultimi, per noi filosofi della scienza e bioeticisti. Non si potrebbe «fare prima»? E non sarebbe eticamente corretto dare la possibilità ai pazienti che soffrono oggi di una malattia incurabile, o trattabile a costo della qualità della vita, di disporre subito delle nuove molecole e di provarle prima che l’iter di approvazione sia concluso? Se tutti e 12 i pazienti trattati sono guariti, perché non tentare, dando così una speranza ai malati di oggi e accumulando dati per i malati di domani?

La risposta alla prima domanda, sulla possibilità di fare prima, è sì e no – occorre qualificare. Cominciamo con il «no». Dal punto di vista epistemico non si può accertare l’efficacia e la sicurezza di un trattamento con piccoli studi senza gruppi di controllo, randomizzazione e possibilmente «in cieco» – senza cioè tutti gli accorgimenti metodologici che servono a minimizzare i confondimenti (le cause spurie, per così dire) e i «bias», che sono gli errori sistematici. Questo ha a che fare con il problema generale di come si può confermare un’ipotesi tramite l’induzione – per intenderci, il problema per cui Bacone e John Stuart Mill hanno lavorato sui loro sistemi di regole. Semplificando al massimo, se ho 12 pazienti con una certa patologia e osservo solo in questi un buon esito con il nuovo farmaco, potrebbe essere che per caso tutti e 12 hanno una caratteristica ulteriore che li fa guarire («confondimento»).

Non si può accertare l’efficacia e la sicurezza di un trattamento con piccoli studi senza gruppi di controllo, randomizzazione e "in cieco", senza minimizzare confondimenti e bias

Oppure potrebbe esserci da parte degli sperimentatori un errore di misurazione, o un involontario pregiudizio positivo sui risultati. Dalla metodologia codificata dalla Evidence-based medicine, poi rivista con piccole correzioni nella versione più recente Grade, sappiamo che, a seconda del disegno sperimentale, uno studio ha più o meno validità interna, ovvero, intuitivamente, possiamo più o meno «fidarci» dei suoi risultati. Uno studio di follow-up senza gruppo di controllo, come quello del Nemj, ha bassa validità interna e non ci permette di concludere che il dostarlimab è efficace e si può prescrivere, anche se apre nuove strade alla ricerca. Chi non fosse convinto dalla metodologia può persuadersi con i numeri: gli studi di fase III che hanno successo sono il 59%. Ciò significa che in poco meno di metà dei casi l’efficacia di un farmaco testata su piccoli gruppi si rivela illusoria, ovvero l’ipotesi non viene confermata (qui una stima per gli Stati Uniti).

Non convinto dalla metodologia è Didier Raoult, celebre microbiologo francese, co-autore di un piccolo studio del marzo 2020, che mostrava l’efficacia terapeutica dell’idrossiclorochina per il Covid-19. L’idrossiclorochina, un farmaco antimalarico a basso costo, divenne dal giorno della pubblicazione di questo studio il cavallo di battaglia populista di Donald Trump e di Jair Bolsonaro, accomunati dalla ricerca di sminuire il pericolo della pandemia per i rispettivi elettorati. Ci fu una corsa all’accaparramento e un hype nella comunità scientifica, ossia una focalizzazione immediata di interesse e di fondi. Ma alcuni metodologi notarono subito che lo studio non era solo limitato dal punto di vista della validità interna – perché condotto su pochi pazienti e senza gruppo di controllo (come sopra) – bensì presentava anche difetti di esecuzione, al limite della frode.

Raoult a questo punto cominciò a sostenere in una serie di articoli e conferenze che le regole dei metodologi entrano in conflitto con il giuramento di Ippocrate, con il dovere del medico di fare del bene e che i modelli matematici soffocano le idee. Ora sappiamo che l’idrossiclorochina non è efficace: questo dopo due Rct che hanno coinvolto migliaia di persone, di cui uno sponsorizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità, ma anche dopo un enorme impiego di risorse per testare un’ipotesi che aveva assunto per via mediatica una rilevanza molto superiore a quella che meritava. Il caso dell’idrossiclorochina, che oggi viene studiato dagli studiosi di comunicazione scientifica e politica e dai filosofi della scienza, mostra che la retorica del piccolo studio che dà speranza, schiacciato dalla macchina metodologica, può essere veicolo di istanze populiste, quando non di interessi personali.

Il caso dell’idrossiclorochina mostra che la retorica del piccolo studio che dà speranza, schiacciato dalla macchina metodologica, può veicolare istanze populiste e interessi personali

Nondimeno, alla domanda «non si potrebbe fare prima (con i farmaci sperimentali)?», si può anche sensatamente rispondere sì. Si è visto nella pandemia come la ricerca sui vaccini, spinta da istanze pratiche, sociali, morali e soprattutto da ingenti capitali, sia stata molto veloce rispetto al solito iter, pur comprendendo tutte le fasi del trial clinico, e non solo ovviamente studi di fase II. Fuori dall’emergenza e in assenza di un’eccezionale possibilità di finanziamento, una delle soluzioni per velocizzare il lungo iter della ricerca clinica è, secondo alcuni, quello di non disperdere le risorse in diversi progetti simili e paralleli, ma di farle confluire e integrarle. Questo è possibile oggi con il supporto tecnologico e la valorizzazione sociale della condivisione dei dati. Si potrebbe anche «fare prima» eliminando quelli che sono spesso veri e propri tempi morti delle agenzie nazionali o sovranazionali di approvazione dei farmaci, che nascondono a volte conflitti di interesse. Infine, per le cosiddette «malattie orfane» – quelle che non hanno ancora trattamenti e riguardano pochi pazienti – il problema consiste nello scarso interesse delle aziende farmaceutiche, che non investono nella finalizzazione dei farmaci sperimentali. Qui l’aiuto della ricerca non privata sarebbe teoricamente possibile, ma com’è noto l’università non è mai più ricca di Big Pharma.

Venendo alla domanda sull’etica sul cosiddetto «diritto di provare i farmaci sperimentali da parte dei pazienti», è sicuramente tempo di pensarci, dato che le istituzioni hanno già procedure in atto. Prima di tutto, è possibile, per chi è gravemente malato e non ha a disposizione un trattamento approvato, tentare di entrare in un trial clinico in cui viene testata una nuova molecola. Ma ci sono diversi problemi pratici ed etici. Innanzitutto, chi è malato spesso non è arruolabile in un Rct perché i criteri di arruolabilità sono spesso molto restrittivi (relativamente a fascia d’età, stadio del tumore, genetica, eccetera). Inoltre, la localizzazione geografica fa la differenza, perché chi vive nel Sud Sudan, per esempio, avrà meno possibilità di un londinese di partecipare al trial clinico per la propria patologia– e questa diventa una differenza etica. In questo senso sono in atto alcune iniziative per rendere i trial «più vicini» a chi vorrebbe entrarci tramite le associazioni dei pazienti. Ma questo non risolve il problema dei criteri di arruolabilità.

Negli Stati Uniti le Right to try laws del 2014, permettono ai malati terminali di accedere a farmaci anche all’inizio della sperimentazione – come potrebbe essere il dostarlimab –senza l’autorizzazione della Fda e contattando direttamente, o tramite il proprio medico, la casa farmaceutica produttrice. In Europa la pratica dell’uso compassionevole svolge una funzione analoga, ma l’autorizzazione dev’essere data dall’agenzia nazionale che presiede all’autorizzazione dei farmaci (l’Aifa in Italia, ad esempio). Tra le ragioni a favore del diritto di provare, c’è l’idea che riducano le disuguaglianze, perché i pazienti molto privilegiati comunque già comprano i farmaci sperimentali sul mercato nero. D’altra parte, chi è contro solleva il problema dell’equità di distribuzione: dato che spesso i farmaci sperimentali in uso compassionevole, vengono poi ritirati per scarsa efficacia o effetti collaterali dovuti alla particolarità di quei pazienti, la casa farmaceutica è costretta a interrompere il ciclo di sperimentazione, privando tutti della possibilità di avere il farmaco «per colpa» del vantaggio fornito a una minoranza. Inoltre, c’è una tensione etica che si crea tra l’autonomia del paziente, che reclama il «diritto di provare» e il «principio di non maleficenza», laddove si sa che la possibilità che il farmaco funzioni e che non abbia effetti collaterali è statisticamente molto bassa, come sottolineato prima. Infine, come notano alcuni bioeticisti, il consenso informato che è centrale a ogni trattamento diventa delicato nel caso di pazienti terminali, ai quali viene proposto un farmaco sperimentale come ultima possibilità, perché la situazione di vulnerabilità lascia spazio a possibili manipolazioni.