La demagogia è un animale feroce che si nutre di carne umana. Ma non appartiene alle nobili specie dei grandi felini che non esitano a battersi con uomini vivi e armati (e perciò anche vili); come le iene si accontentano di spolpare i cadaveri.Negli ultimi giorni le iene del potere mediatico si stanno accanendo su una «non notizia» a cui attribuiscono un risalto paradigmatico: il 15 settembre i parlamentari eletti per la prima volta nell’attuale legislatura hanno superato la soglia (4 anni 6 mesi e un giorno) che consente loro di fruire di un mandato pieno ai fini della pensione.

Che questa circostanza sia causa di scandalo è incomprensibile. Sostenere (come si è fatto da più parti) che fosse necessario interrompere prima la legislatura al solo scopo di evitare il completamento del periodo contributivo minimo richiesto è da irresponsabili. Così come far credere che le «anime morte» che siedono in Parlamento possano associarsi allo scopo di prolungare una legislatura ormai defunta.

Nessuno fa caso che ai nuovi parlamentari si applica il calcolo contributivo (ormai divenuto, fino a rasentare l’idolatria, l’unità di misura dell’equità); mentre la legge – la stessa in vigore per tutti – stabilisce che quanti sono interamente nel sistema contributivo, raggiunta l’età di vecchiaia, possono andare in quiescenza se hanno maturato cinque anni di effettiva anzianità e se il calcolo del trattamento è pari o superiore a 1,5 volte quello dell’assegno sociale.

Certo, rimane una discrepanza a cui si sarebbe potuto provvedere per regolamento: mentre il requisito anagrafico dei «coniugi Rossi» è in cammino verso i 70 anni in forza della graduale parificazione di genere e dell’aggancio automatico all’attesa di vita, quello dei parlamentari è fissato a 65 anni, in decrescita fino a 60 con più legislature.

Ecco allora che le vestali dell’uniformità con quanto previsto per i lavoratori normali, chiedono l’applicazione ai parlamentari di quella riforma Fornero che loro vorrebbero bruciare nelle piazze. Ma quando nel 2011 si attuò il superamento del sistema dei vitalizi (chi scrive fu tra i protagonisti di quell’operazione), si tenne conto della situazione previgente (quando gli anni necessari erano solo 50), considerando che un salto immediato di 10-15 anni fosse sufficientemente adeguato nella lotta contro i c.d. privilegi.

L’equiparazione del requisito anagrafico poteva benissimo essere compiuta con delibera degli Uffici di presidenza, come è sempre accaduto: sarebbe stato più semplice piuttosto che proporre un’iniziativa legislativa volta più che altro a rubacchiare qualche spicciolo di consenso.

Inoltre, regolare la materia dei vitalizi (già erogati o riconosciuti pro rata) attraverso una legge ordinaria significa, consapevolmente, sottoporsi al giudizio della Consulta e mettere in conto una pressoché certa sanzione di incostituzionalità; così da poter dire un domani: «noi ci abbiamo provato ma ci ha impedito di fare giustizia la Corte Costituzionale con le sue pandette burocratiche e conservatrici». Non si comprende, infatti, perché non si sia agito nell’ambito dell’autodichia ovvero dell’autonomia riconosciuta agli organi costituzionali nello stabilire le regole proprie. In questo caso i giudici delle leggi non avrebbero avuto voce in capitolo.

Ma perché sarebbe incostituzionale la legge Richetti nella versione approvata dalla Camera? Non c’è soltanto la questione dei diritti acquisiti (come sono state ritenute fino ad oggi le prestazioni erogate in conformità alle norme a suo tempo vigenti); ci sono altri aspetti, tra i quali le incoerenze del testo rispetto agli stessi principi che lo hanno ispirato. E quando non si rispettano neppure i principi che vengono sbandierati in un provvedimento, si dimostra soltanto la propria malafede. Chi non è in grado di attenersi alle regole che vuole imporre, commette dei veri e propri arbitri. Il Dna del progetto di legge non vuole fare giustizia; intende soltanto colpire e umiliare chi, bene o male, ha rappresentato il popolo sulla base di un mandato ricevuto dagli elettori.

Ma procediamo con ordine nel sostenere le nostre tesi. Andiamo all’incipit dell’articolo 1 del testo varato dalla Camera (attraverso la dittatura di una maggioranza che in realtà è una minoranza dopata dal premio elettorale), dove si afferma con una solennità farisaica: «Al fine di rafforzare il coordinamento della finanza pubblica e di contrastare la disparità di criteri e trattamenti previdenziali, nel rispetto del principio costituzionale di eguaglianza tra i cittadini, la presente legge è volta ad abolire gli assegni vitalizi e i trattamenti pensionistici, comunque denominati, dei titolari di cariche elettive e a sostituirli con un trattamento previdenziale basato sul sistema contributivo vigente per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali». Il criterio-guida è, dunque, quello di trattare gli ex parlamentari e quelli in carica, per la parte coperta dal vitalizio, come i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, applicando loro il calcolo contributivo. Prima contraddizione: ma i dipendenti presi a riferimento, alla stregua di tutti gli altri lavoratori subordinati e autonomi, hanno avuto a che fare, in tutto o in parte, col calcolo contributivo soltanto a partire dal 1996. Perché nel caso dei parlamentari – in carica ed ex – si deve risalire ancora più indietro?

Si potrebbe rispondere che si tratta di un primo passo, di sondare il terreno per procedere oltre, ma che in seguito questa regola verrà applicata a tutti i profittatori del regime retributivo. Non è così. Per non farsi inseguire con i forconi dal 95% dei pensionati italiani (liquidati in generale con il retributivo fino al 1o gennaio 2012), gli «ammazza vitalizi» hanno voluto cautelarsi, scrivendo nel testo (articolo 12, comma 5) quanto segue: «la rideterminazione di cui al presente articolo non può in alcun caso essere applicata alle pensioni in essere e future dei lavoratori dipendenti e autonomi». Così sono state blindate persino le c.d. pensioni d’oro. Per umiliare qualche migliaio di ex parlamentari e di consiglieri regionali si sono garantiti persino coloro (e sono centinaia di migliaia) che hanno davvero tratto un effettivo vantaggio ingiustificato dall’applicazione del calcolo retributivo.

Ma anche questo emendamento è scritto sull’acqua. Alla fine, la norma «salva pensioni retributive» è solo una foglia di fico, perché una nuova legge ordinaria potrà sempre abrogare o modificare quanto disposto da una precedente. Ma prendiamo pure in parola il legislatore. Perché si vuole fare questo scherzo soltanto ai parlamentari? Torniamo a leggere l’articolo 12, che al comma 5 ce lo spiega: «In considerazione della difformità tra la natura e il regime giuridico dei vitalizi e dei trattamenti pensionistici, comunque denominati, dei titolari di cariche elettive e quelli dei trattamenti pensionistici ordinari…». Ma come? – ci si potrebbe domandare a questo punto – si era partiti dicendo che le differenze vanno superate e che i parlamentari devono essere trattati come gli altri lavoratori, poi si finisce per riconoscere le stesse difformità che si volevano abolire?

Ma non basta. Logica vorrebbe che se calcolo contributivo deve essere, lo sia in ogni caso. Uno ha diritto di avere un trattamento conforme a quanto ha versato (e a quanto è stato versato per lui)? Si taglia a chi ha avuto di più (la grande maggioranza): ma se qualcuno – a conti fatti – col calcolo contributivo ci guadagna, che cosa succede? Gli si aggiusta la pensione? Assolutamente no! È sempre in agguato l’articolo 12 a stabilire in modo estremamente chiaro che: «In ogni caso l’importo non può essere superiore a quello del trattamento percepito alla data di entrata in vigore della presente legge». Ecco che così il vitalizio resuscita.

Infine ci sono dei limiti tecnici insuperabili per chi volesse fare le cose in maniera corretta. Per applicare il calcolo contributivo bisognerebbe conoscere prima di tutto l’ammontare dei contributi versati. Ciò è impossibile perché questi versamenti non sono stati effettuati. Gli uffici amministrativi del Parlamento, fino all’entrata in vigore pro rata del contributivo a partire dal 2012, si limitavano a riscuotere la quota a carico del soggetto, poi, al momento stabilito e sulla base di quanto disposto dal regolamento, erogavano il trattamento in termini di cassa, come fino ad allora avevano fatto con le indennità e le altre voci retributive. Era più o meno la stessa operazione che le amministrazioni statali compivano per i propri dipendenti al momento della cessazione dal servizio, prima che fosse istituita, nel 1996, un’apposita gestione presso l’Inpdap.

Così il progetto di legge Richetti sul calcolo è costretto a barcamenarsi con modalità del tutto spurie, pensate ad hoc per i parlamentari, che meritano di essere puniti per una qualche misteriosa ragione, come ai tempi dell’Inquisizione. Purtroppo in questo i media agiscono da agit-prop. Ma non raccontano mai che il metodo contributivo, nuovo riparatore di torti e ingiustizie, angelo vendicatore di inauditi privilegi, la categoria dei giornalisti se lo è dato, rigorosamente pro rata, solo a partire dal 2017.

 

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