FERNANDO D’ANIELLO Professore, come ha vissuto il 7 ottobre, quello che ormai è stato definito come il “sabato nero” di Israele?

MARIO SZNAJDER È stata una giornata terribile, ci siamo svegliati molto presto con le sirene d’allarme, perché l’attacco dalla Striscia di Gaza è cominciato con un lancio di missili sul territorio israeliano. Poco dopo sono arrivate notizie della presenza di gruppi terroristi di Hamas e del Jihad islamico, che avevano attraversato la frontiera in più punti e stavano attaccando diversi kibbutz e moshav e tre piccole città intorno alla Striscia. All’inizio non si capiva che cosa stesse succedendo esattamente, poi ho avuto la sensazione che si stesse consumando una vera  e propria tragedia, perché l’esercito, che avrebbe dovuto rispondere rapidamente, tardava a intervenire. Le prime unità sono arrivate solo cinque, sei, sette ore dopo l’attacco. Nella prima fase a reagire sono stati solo i piccolissimi gruppi di difesa che esistono in ogni kibbutz e moshav ma non nelle piccole città, dove tutto ricade sulla polizia. Nel frattempo, il conto dei morti e dei feriti aumentava. Attorno a mezzogiorno è arrivata la notizia dell’attacco al festival dove c'erano migliaia di giovani disarmati provenienti da tutta Israele, da Eilat nel Sud sino a Metulla nel Nord: era l’intero Paese che veniva colpito. In quel momento abbiamo avuto contezza del fallimento dell’esercito e dei servizi di sicurezza. Persino il sistema di difesa contro i tunnel realizzati da Hamas per infiltrarsi nel territorio israeliano non aveva funzionato. Dunque si trattava di un attacco in massa e non di una “classica” operazione di un gruppo solitario. A quel punto, nonostante il tentativo di censura militare israeliana per evitare di mostrare alla popolazione il livello dell’attacco, e dunque il loro fallimento, era chiaro che ci trovavamo di fronte a massacri medievali, barbari, che in tanti anni e nella storia delle guerre tra israeliani e arabi non avevo mai visto.

FDA Un vero e proprio shock.

MS Sì, non c’è dubbio. Anche perché era un sabato particolare, cinquant’anni e un giorno dalla guerra dello Yom Kippur, nell’ottobre 1973, che pure era cominciata con un’azione a sorpresa da parte della Siria e dell'Egitto. Hamas ha cercato di sfruttare questa ricorrenza dal punto di vista simbolico, dimostrando che anche loro erano capaci di fare quello che grandi e potenti Stati hanno fatto cinquant’anni fa. E questo ha condotto al sabato nero di Israele.

FDA Come cambia dopo il 7 ottobre la questione israelo-palestinese?

MS La prima cosa da tener presente è che, nello scenario politico palestinese, l’iniziativa è nelle mani di Hamas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che già aveva poco potere e credibilità, non esiste più. È vero che il presidente Biden voleva incontrare Mahmūd Abbās, che ha anche inviato una delegazione in Russia, e che conserva un ruolo formale. Ma è ormai evidente che, da un lato, non hanno il controllo nemmeno della popolazione in Cisgiordania e, dall’altro, sia gli israeliani sia gli statunitensi sia gli europei si concentrano su quello che dice e farà Hamas, che ha conquistato una grande vittoria politica e ormai opera anche nei territori formalmente controllati dall’Anp. È vero che in Israele c’è sempre stato scetticismo su una trattava con l’Anp perché ci si chiedeva sempre con chi si negoziasse, cioè quanto pesassero gli estremisti; ma adesso la situazione è chiara e occorre tener presente il problema rappresentato da Hamas e Jihad islamico. Dopo l’attacco, che ha portato a 238 ostaggi nelle mani di Hamas ‑ non solo soldati, ma soprattutto civili, tra i quali bambini e anziani ‑ la società israeliana, il popolo israeliano, deve reagire. Anche se parlassimo con l’Anp non arriveremmo a nulla, perché non possono dare alcuna assicurazione sugli ostaggi. E la pratica del terrore e dei massacri di Hamas impedisce di imbastire una vera trattativa. Tant’è che il negoziato avviene con altre parti, ad esempio con il Qatar o con l’Egitto, che provano a mediare con la dirigenza di Hamas. Ecco il grande problema: Hamas è un’organizzazione jihadista che vuole la distruzione dello Stato d’Israele, che non recede dal suo obiettivo e che si è certamente avvalsa dell’aiuto dell’Iran, che ha fornito mezzi per questo attacco. Come al solito, in Medioriente le cose però sono sempre più complicate di come appaiono a prima vista: non bisogna credere che l’attacco sia partito su ordine di Teheran; è una vicenda palestinese. Anche perché Hamas è un’organizzazione di mussulmani sunniti, mentre come noto gli iraniani sono in maggioranza sciiti. Con l’operazione di sabato 7 ottobre, che Hamas ha chiamato Diluvio Al Aqsa – per ricordare la moschea di Gerusalemme, uno dei luoghi sacri più importanti dell’Islam – Hamas è diventata un punto di riferimento nel jihadismo globale. Lo si vede anche nelle manifestazioni europee: certamente ci sono tanti – la maggioranza – che manifestano per la causa palestinese. Ma ci sono anche gruppi che non hanno problemi ad attraversare il confine della violenza e che possono rappresentare un problema anche per voi.

FDA Mentre parliamo è di fatto già in corso un’azione militare di terra a Gaza. Fino a che punto la risposta all’azione terrorista è legittima?

MS Qui ci sono due piani. Innanzitutto quello politico-militare. Tutta la società israeliana chiede una risposta molto forte. Non solo la destra, ma tutta la popolazione: non dimenticate che sono stati colpiti i kibbutz di sinistra, a essere stati massacrati non sono stati i falchi della destra ma gente di sinistra, progressisti, pacifisti. E questi attacchi vanno avanti, perché continuano gli attacchi missilistici, anche adesso: può darsi che, mentre parliamo, ci sia un allarme antimissili e saremo costretti a interrompere questa intervista. L’azione di sabato 7 ottobre ha dimostrato che è possibile colpire Israele e la società israeliana vuole che Hamas e altri gruppi terroristici non abbiano più la capacità di ripetere questo attacco. L’attacco non può restare impunito: se non lo fa Israele non lo farà nessun altro. L’altro piano è quello del diritto internazionale. Non è il mio campo di ricerca, ma so che impatta su una situazione che è del tutto anomala: perché a Gaza non c’è un vero Stato, non c’è un esercito regolare. Ed è un problema che si presenta ormai da decenni, da quella che i palestinesi chiamano la Nakba del 1948, la loro catastrofe nazionale. Questa situazione rende difficile intervenire: sono sicuro che l’obiettivo della società e dell’esercito israeliani non sia quello di colpire i civili, ma ci confrontiamo con un gruppo, Hamas, che usa i propri civili come scudo e come base per far partire gli attacchi. Hamas non colpisce solo la società israeliana ma gli stessi palestinesi, perché si sapeva che una risposta molto forte da parte di Israele sarebbe stata inevitabile. Da qui, la richiesta dell’esercito alla popolazione palestinese di lasciare il Nord della Striscia – una cosa che, nonostante tutti i problemi e la massa di persone, sta effettivamente succedendo – e questo dovrebbe ridurre il numero delle vittime civili. Tenete presente un altro aspetto: l'esercito israeliano sta avanzando molto lentamente, non solo per una necessità tattica, cioè per evitare morti e feriti tra i soldati, ma perché si sta facendo una guerra in una zona altamente popolata. Si dirà che è una richiesta del presidente Biden di rispettare le norme di guerra ed evitare vittime civili, ma credo che questa richiesta venga anche dall’interno di Israele. Non bisogna dimenticare che nelle manifestazioni contro le riforme promosse dal governo Netanyahu c’era anche l’élite dell’esercito e in particolare quelle delle forze aeree. Si tratta di persone che credono nella democrazia israeliana e non accetterebbero di condurre una guerra senza regole. Sanno che esiste un’etica di guerra che impone di rispettare i civili. È anche per questa ragione che non ho creduto all’ipotesi che l’ospedale di Gaza potesse essere stato bombardato dai nostri soldati: nessun pilota accetterebbe di eseguire un ordine simile. Hamas sfrutta questa situazione e stabilisce il suo comando proprio negli ospedali o nelle scuole. Ma c’è anche un altro problema: sappiamo, anche grazie alle registrazioni video, che una parte della popolazione civile ha condotto saccheggi dopo l’arrivo dei terroristi in territori israeliano. Alcuni hanno anche partecipato alle azioni dei terroristi. Il problema non è ovviamente il saccheggio in sé, ma anche questa partecipazione è inaccettabile per la società israeliana e queste persone dovranno essere arrestate e giudicate da tribunali.

FDA In questo momento Lei esclude qualsiasi possibilità di avviare una trattativa diretta o indiretta con Hamas?

MS Politicamente sì, lo escludo. Ma c'è il problema degli ostaggi e del blocco. Su quest’ultimo punto la mediazione da una parte degli Stati Uniti, che hanno molta influenza su Israele, e dall’altra parte del Qatar ha prodotto già l’ingresso di 38 camion con rifornimenti umanitari e di acqua potabile nel Sud della Striscia di Gaza. Resta il problema del carburante – che Hamas utilizza per scopi militari, tra cui il lancio di razzi, e che pone un problema umanitario enorme – ma per il resto il governo israeliano è convinto della necessità di assicurare i rifornimenti nel Sud della Striscia.

FDA Sembra si discuta anche della possibilità di spostare i Palestinesi da Gaza e di trasferirli altrove, in Egitto ad esempio.

MS Questa ipotesi mi sembra irrealistica soprattutto per ragioni internazionali. L’Egitto è contrario. Il presidente al-Sisi ha dichiarato che gli egiziani non accetteranno rifugiati palestinesi nel Sinai perché è parte del territorio sovrano nazionale egiziano e perché non si può ripetere la tragedia del ‘48 di trasferire la popolazione palestinese da una parte all'altra. Ma ha anche aggiunto che se i palestinesi si stabiliscono nel Sinai, continueranno la loro lotta contro Israele e questo finirà con il mettere in discussione la stessa pace fra Egitto e Israele. Queste cose sono già accadute in Medioriente: prenda la Giordania. Il gran timore del re Abdallah II è che se esplode la Cisgiordania, i palestinesi presenti in Giordania, già tanti, si rivolteranno contro la famiglia regnante hashemita e lui certamente non vuole una Repubblica palestinese in Giordania. Infine, non credo che, oltre alla ultradestra israeliana, ci sia un settore politico che voglia davvero trasferire i palestinesi. L’obiettivo è un altro: eliminare la capacità militare di Hamas. Si parla anche della sua capacità politica, ma questa mi pare una posizione ingenua perché Hamas conta sull'appoggio della maggioranza della popolazione palestinese, dunque, anche se vengono eliminati i militari, rimarranno abbastanza sostenitori per ricreare nuove strutture politiche.

FDA Veniamo a questo punto alla società israeliana: da qui ho visto immagini molto diverse. C'è stata una grande unità nazionale, per esempio un celebre attore di una famosa serie tv, Fauda, è tornato tra i riservisti. Però abbiamo anche ascoltato inviti alla calma, per evitare di trasformare la reazione legittima in una vendetta cieca.

MS Innanzitutto, la mia posizione si identifica con questi ultimi. Sappiamo che c’è una guerra e sappiamo che a iniziarla non è stato Israele, sebbene i palestinesi di tutto il mondo diranno che bisogna guardare il contesto, riproponendo la domanda dell’uovo e della gallina, quale aggressione sia partita prima, se quella del ‘48 o altre. Sappiamo che il massacro è stato avviato da Hamas. Quando accadono fatti di questo tipo è veramente difficile trovare una misura “proporzionale”, davvero non so chi possa, in chissà quale tribunale, misurare che cosa significa “proporzionalità”. Quello che non vogliamo è attaccare tutta la società palestinese: sappiamo che tanti sostenitori di Hamas appoggiano il movimento per problemi sociali ed economici, magari perché non vogliono perdere il lavoro. Quelli che devono essere colpiti sono i terroristi ed è questo il grande problema di Israele: come attaccare i terroristi senza danneggiare gli altri.

Poi viene il problema politico. Io non ho dubbi sul fatto che l’esercito israeliano avrà successo, ma in questi casi le vittorie militari non servono a niente. È dopo che viene il problema vero, il problema politico. La maggioranza della società israeliana non vuole un’occupazione militare della Striscia, che richiederebbe un gran numero di riservisti. Ecco: che cosa fare della Striscia e quale sarà il suo futuro è un grande problema politico. Già negli anni Settanta gli egiziani non volevano saperne e non c’è al mondo qualcuno che voglia avere a che fare con la gestione della Striscia perché nessuno sa cosa fare. I nazionalisti dell’estrema destra israeliana continuano a proporre un’annessione, perché fa parte dell’Israele biblico, ma non hanno vere soluzioni, credono che sia davvero possibile convincere i giovani ad andare ad occupare la Striscia, come nuovi coloni. I palestinesi temono questa possibilità ma io credo che non ci sia nessuno, nella società israeliana, che voglia davvero questa seguire questa strada. C’è stato un tempo in cui queste cose sono state possibili, ma proprio perché sono già successe oggi le cose sono cambiate e questa idea dei trasferimenti non è più praticabile.

FDA Israele attraversa da più di un anno una difficilissima crisi politica. C'è stata una grande mobilitazione contro il governo per questioni legate alla politica interna. Però c’è stata anche una responsabilità di questo governo nel voler nascondere la questione palestinese, facendo finta che si potesse andare avanti senza affrontare il problema.

MS Assolutamente, questa era la teoria di Netanyahu e della maggioranza dell’estrema destra. Ma credo che in Israele esista ancora un centrodestra che capisce che l’unica soluzione del problema sia un negoziato, e questo significa che Israele dovrà cedere territori all’Autorità palestinesi o a chi ci sarà. Il problema è l’estrema destra, alla quale Netanyahu è andato dietro, che è il partito degli insediamenti in Cisgiordania e che rifiuta ogni tipo di discussione sulla restituzione dei territori perché non vogliono uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza. Sono talmente antipalestinesi e antiarabi che non accettano nemmeno la possibilità che grazie a un accordo politico ci possano essere palestinesi cittadini di Israele, come avviene anche oggi, e anche israeliani cittadini di uno Stato palestinese. Per loro questo è un vero anatema, perché considerano Israele strumento delle loro politiche. Del resto, Israele ha avuto tante occasioni per colpire Hamas e distruggerla, ma non lo ha mai fatto perché ma a quel punto la pressione internazionale avrebbe obbligato il governo a negoziare davvero con i palestinesi e l’Anp, vale a dire a fare concessioni sulle restituzioni territoriali. Il negoziato è tutto lì, non c’è altro: per fare lo Stato palestinese c’è bisogno di territori e quindi bisogna bloccare gli insediamenti.

FDA Secondo lei c’è in Israele la possibilità, anche dopo questo anno di mobilitazioni, di un cambiamento politico? Di mettere in minoranza questa destra estrema e di trovare un accordo tra le parti? Magari liberando anche prigionieri politici che possano dare una nuova rappresentanza ai palestinesi?

MS Questa possibilità c'è, possiamo fare anche i nomi: Marwan Barghuti, ad esempio. Secondo me a lungo andare accadrà, è solo questione di tempo. Il motivo è semplice: è dimostrato dalla Storia che le guerre fra israeliani e palestinesi provocano morte e fumo, cioè moltissimo sangue e moltissima distruzione, e alla fine non si può attuare una soluzione militare. Perché né gli israeliani né i palestinesi lasceranno il Medioriente: qui rimangono entrambi i popoli e dunque a lungo andare si vedrà la necessità di accordi fra le parti. In parte è già successo, ad esempio con l’Egitto o con i negoziati di Oslo, che però sono falliti. Questa è la soluzione, non ne vedo un’altra. Ci vorrà tempo per emarginare politicamente gli elementi della destra più estrema, ma anche nel mio Paese c’è gente che capisce che il gioco a somma zero produce solo danni. Ai miei studenti consiglio sempre il libro di Daniel Kahneman, premio Nobel israeliano, Pensieri lenti e veloci [tradotto in italiano da Mondadori nel 2020, N.d.T.]. Io applico le teorie di Kahneman all’odio: la reazione immediata al massacro è l'odio, procedere con le soluzioni di forza, distruggere Gaza e Hamas. Però, se usiamo davvero il pensiero razionale, lento, che ci obbliga ad analizzare tutti i fattori, l’unica soluzione possibile anche per la maggioranza degli israeliani sta negli accordi. I palestinesi non scompariranno e neanche noi scompariremo, quindi dobbiamo giungere a un accordo. Capisco che in questo momento non si possa negoziare, ma fra un anno o due ci sarà bisogno di lavorare a una soluzione razionale.

FDA Mi pare di capire quindi che secondo lei ci sia  ancora spazio per la soluzione dei due Stati e poi magari di una confederazione.

MS L'ipotesi dei due Stati è ancora presente; è ammaccata, specialmente in questo periodo, in cui scorre tanto sangue, però senza dubbio chi riesce a pensare razionalmente sa che c'è bisogno di una separazione per un motivo psico-storico-sociologico. I palestinesi hanno bisogno di passare lo stadio dello Stato nazione palestinese prima di arrivare ad altre soluzioni, come una confederazione con la Giordania, dove la maggioranza della popolazione è palestinese, o una completa federazione tripartita Israele-palestinesi-Giordania. Tutto questo per ammorbidire le relazioni e fare in modo che nel Medioriente sia accettata l’idea che esiste uno Stato ebraico. E che in un Medioriente a maggioranza islamica ci sono tante minoranze che vanno tutelate, alcune in forma di Stato, altre no. Ripeto, servono accordi, nei quali ogni parte penserà sempre di aver pagato un pezzo troppo alto. Ma ci permettono di vivere insieme e in pace.

FDA Professore, lei che vede ogni giorno una nuova generazione di israeliani, crede che questi giovani siano in qualche misura migliori della classe politica attuale e pronti a fare un negoziato? O questa guerra rischia di polarizzare ulteriormente la società israeliana?

MS Nel breve periodo è inevitabile che questa polarizzazione ci sarà. I giovani però sono il risultato diretto della rivoluzione socio-economica che ha attraversato Israele, come tutto l'Occidente, che ha individualizzato le società. Per loro gli interessi individuali sono molto più forti degli interessi sociali o le ideologie o i partiti, ed è per questo che la partecipazione al voto sta scendendo in tutte le società occidentali, non solo in Israele. Ma c’è dell’altro: lo abbiamo visto nella protesta contro la riforma antidemocratica del governo. Quando manca la stabilità, gli interessi individuali di questi israeliani moderni sono attaccati immediatamente. Questi giovani vogliono viaggiare in tutto il mondo ed essere ben accolti, e non attaccati dai pro-palestinesi o in quanto ebrei, come è successo all'aeroporto in Daghestan. Ecco perché credo che fra di loro ci sarà un cambio di direzione politica. Il problema in Medioriente è sempre lo stesso: come emarginare gli estremisti, gli stessi che hanno ammazzato Sadat, che hanno ammazzato Rabin, che sono gli autori di attentati e che realizzano gli insediamenti. Credo che questo fenomeno sociologico dell’individualizzazione conduca all'idea che gli estremi ideologici non servono a niente. Sono questi giovani che sono andati contro il governo Netanyahu perché hanno capito che a essere minacciati dagli estremisti di destra sono propri i diritti individuali. Questo in Israele è stato capito da tutti. La società civile israeliana è ancora molto forte e quando è scoppiata la guerra ha fatto molto di più dello stesso governo per sostenere le zone colpite.

[Il testo di questa intervista, rilasciata il 29 ottobre 2023, è stato chiuso in redazione il 1° novembre.]