Sono trascorse più di tre settimane dall’uccisione della giovane iraniana Mahsa Amini mentre era sotto custodia della polizia, arrestata durante una vacanza a Teheran con la famiglia perché portava il velo in maniera inappropriata. Proprio come riporta l’iscrizione sulla lapide di Mahsa - Name-to ramz mishavad, letteralmente “il tuo nome diventerà chiave” - il suo nome è diventato il nucleo in queste proteste: come per le donne che agitavano in aria i loro foulard, gridando insieme agli uomini contro il velo obbligatorio e per la fine della dittatura, le proteste sono arrivate in tutto il Paese, coinvolgendo più di 80 città, la diaspora iraniana sparsa in tutto il mondo e la comunità internazionale. Sebbene all’origine ci siano le rivendicazioni femminili per la libertà, contro il controllo del corpo femminile e contro il velo obbligatorio, ora le proteste si sono allargate, al di là delle questioni femminili, enfatizzando parole come libertà e vita.

Lo slogan principale - “Donna, vita e libertà” - ha dato un’atmosfera vigorosa e nuova rispetto alle proteste precedenti: è uno slogan che sfida un sistema patriarcale e che va contro alcune leggi discriminatorie della Repubblica islamica, soprattutto in merito alle disuguaglianze di genere e ai pari diritti. La centralità del discorso femminile e la sensibilità del popolo iraniano verso l’immagine della donna, nonché la consapevolezza sui regolamenti non più tollerabili nella società iraniana, hanno dato un maggior peso critico contro l’intero sistema socio-politico.

È la nuova generazione che ha sostenuto la continuità delle proteste. La generazione su cui sono stati investiti tanti fondi pubblici per avvicinarla ai principi della Rivoluzione islamica

È la nuova generazione che ha sostenuto la continuità delle proteste. Proprio la generazione su cui sono stati investiti tanti fondi pubblici per avvicinarli ai principi della Rivoluzione islamica; il che, a fronte delle proteste di queste settimane, mostra il fallimento dello stesso sistema educativo-ideologico iraniano. Con l’apertura delle scuole le studentesse stanno facendo sentire la loro voce, togliendosi il velo e gridando diversi slogan per la liberazione della donna, sia all’interno della scuola sia al di fuori di essa, strappando dai loro libri scolastici le foto di Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica e leader religioso della Rivoluzione iraniana, e di Ali Khamenei, attuale leader supremo. Oppure registrando video e caricandoli sulle piattaforme online come TikTok, condannando l’attacco alla prestigiosa Università di Sharif, l’arresto e l’uccisione di diversi manifestanti, tra cui la diciasettenne Nika Shakarami, la sedicenne Sarina Esmailzade, la ventenne Haith Najafi. E tanti altri.

Fra tutti questi eventi, in particolare, il sostegno di massa all’arresto del musicista Shervin Haji-Aghapur, che ha cantato la canzone “Baraye” (lett., per), selezionando le frasi dalle migliaia di tweet che esprimevano per quale motivo stavano protestando. Lo stesso hashtag di Mahsa Amini ha superato le 300 milioni di condivisioni, restando in cima alle tendenze di Twitter per diversi giorni. Una canzone, “Baraye”, è diventata la colonna sonora della protesta, raccogliendo in poco tempo così tanto successo che, in confronto, la canzone di propaganda governativa “Salam Farmandeh” (lett., Ciao Comandante) - sostenuta da finanziamenti ricevuti dall’autorità iraniana e diffusa tramite il coinvolgimento delle scuole e l’organizzazione di raduni ad hoc per cantarla - non ha riscosso la stessa popolarità.

In tutto ciò, tra le diverse crisi che il Paese sta affrontando - la crisi economica, la corruzione, la crisi di politica interna e le sanzioni economiche a livello internazionale - nessuna ha potuto attirare l’attenzione del popolo quanto la protesta incentrata sulle donne, sebbene l’episodio di Mahsa non sia stato il primo, ma abbia riportato in superficie, durante le proteste, anche gli episodi precedenti, vedendo l’apertura di una possibile rivendicazione di giustizia anche per loro. In mezzo c’è anche la discussione sulla vita delle due ragazze attiviste nella comunità Lgbtq+ che sono state arrestate il mese scorso: tra l’altro, sarebbe la prima volta che una donna viene condannata a morte in Iran per il suo orientamento sessuale.

Considerando che uno degli obiettivi del governo islamico è stato quello di proteggere le donne dall’invasione nemica - quella culturale dell’Occidente e quella militare dell’Iraq durante la guerra tra Iran-Iraq (1980-1988) - ora si è passati dal lato opposto. L’irresponsabilità dell’autorità iraniana e i maltrattamenti perpetrati dalle forze dell’ordine ai danni dei manifestanti hanno creato sfiducia e una crescente diffidenza verso il sistema, come si vede proprio in questi giorni nelle strade iraniane, al grido di “donna, vita e libertà”.

Per ora l’unico organo che i manifestanti invitano a essere dalla loro parte è l’esercito, che da sempre ha guadagnato la fiducia del popolo, non solo durante il regime islamico ma anche durante la monarchia dei Pahlavi (1925-1979). Dall’altra parte, esistono diverse forze dell’ordine, come la polizia e i Sepah (le guardie rivoluzionarie) e paramilitari come i Basij, che opprimono chi protesta o semplicemente si trova in luoghi pubblici dove la gente esprime il proprio malcontento.

Al di fuori dell’Iran queste proteste vengono interpretate come una sorta di “rivoluzione femminile” che si porta dietro il sostegno e la solidarietà internazionale, simboleggiata dalle donne in giro per il mondo che si tagliano una ciocca di capelli, segno di questa rivoluzione, e lo inviano al consolato iraniano del loro Paese. Il simbolo delle proteste, il gesto di togliersi il velo, che da più di quaranta anni è stato strumentalizzato per la politica e per dare un’immagine islamica a tutto il mondo, ora è diventato l’arma principale contro il regime patriarcale.

L’importanza della situazione attuale ha portato a sedersi intorno a un tavolo alcune élite iraniane: professori, studiosi e politici, all’Università di Teheran hanno discusso apertamente della legittimità e dell’illegittimità dell’organo di controllo dei principi morali e religiosi, il cosiddetto “gasht-e ershad”, o polizia morale, del cambiamento sociale e generazionale, nonché della necessità di eventuali modifiche. Dal canto suo, Khamenei ha (tardivamente) dichiarato che le proteste sono organizzate dai nemici storici, Stati Uniti e Israele, e che i giovani sono cascati in questa trappola in quanto le stesse donne che tolgono il velo non sono necessariamente contro la Repubblica islamica in sé; su una linea simile Ebrahim Rai’isi, presidente ultraconservatore, ha espresso di dedicarsi nel risolvere le tensioni ma senza toccare i valori islamici sanciti della Rivoluzione del ’79.

Nonostante le leggi che le discriminano, le donne in Iran partecipano e contribuiscono attivamente alla società, tanto sul piano economico, quanto su quello politico e intellettuale. Nella società iraniana, la presenza delle donne in qualsiasi posto di lavoro, a tutti i livelli, è ben assorbita. La nuova classe dirigente da diversi anni ha messo in discussione il ruolo delle donne nell’ottenere più posti chiave e decisionali, come si evince dalla partecipazione attiva delle donne alle candidature nelle elezioni sia presidenziali sia parlamentari, i cui eletti vengono scelti con il voto diretto del popolo. Tuttavia, per via del Consiglio dei Guardiani, che ha il compito di qualificare e squalificare i candidati, purtroppo le donne nemmeno una volta sono state scelte per la candidatura presidenziale e solo poche di loro sono riuscite ad occupare gli scranni del Parlamento: alle elezioni del 2020, solo 17 donne su un totale di 290 seggi, il maggior numero di donne elette dopo il ’79. Il regime iraniano ha di fronte a sé la metà della popolazione che è femminile, giovane e consapevole dei propri diritti, nonché consapevole delle leggi discriminatorie e della diseguaglianza di genere. La conoscenza e il coraggio di queste settimane è scaturito dopo tanti anni di lavoro dei gruppi delle donne, femministe e attiviste in diversi settori, come la campagna, la più significativa, per uguali diritti, di One Million Signature, fondata nel 2006, ma i cui membri erano attivi già dal decennio del presidente riformista Mohammad Khatami (1996-2006).

L’altro strumento fondamentale per dare voce e forza alla protesta sono, ancora una volta, i social media: se nelle proteste del Movimento verde del 2009 Facebook è diventata la piattaforma online fondamentale per organizzare le manifestazioni, con un personaggio politico come Mir Hossein Musavi, a partire dal 2018, per via della censura, si sono spostate su Instagram, Clubhouse, WhatsApp e Telegram, con la differenza che in questo modo per i manifestanti veniva a mandare un unico leader di riferimento e le proteste iniziavano ad essere guidate dal popolo, con l’appoggio dei sindacati, contro la difficile situazione economica e sociale e contro la corruzione. Anche le proteste di questi giorni, oltre a non avere un’organizzazione specifica, non hanno un leader: ed è questo uno dei motivi per cui riescono a durare da diverse settimane. Le forze dell’ordine non possono arrestare i leader della protesta perché, semplicemente, non esistono.

Le proteste non hanno un leader: ed è questo uno dei motivi per cui riescono a durare da diverse settimane. Le forze dell’ordine non possono arrestare i leader perché, semplicemente, non esistonoSi tratta dunque di mobilitazioni dal basso che hanno al centro la questione della libertà della donna. Ora il governo ha bloccato le piattaforme più popolari, come Instagram e WhatsApp, rendendo spesso impossibile l’accesso a internet. Va detto inoltre che nelle piattaforme social esiste anche una protesta online, ancora più presente, tra il gruppo pro-proteste e quello pro-governativo cosiddetto “arzeshiha” (lett., seguaci della casa di leadership Beyt-e Rahbari), ideologicamente radicali. Si tratta di un gruppo considerato minoritario ma che ha il potere politico in mano. Si tenga presente che il governo iraniano ha investito tanto per creare un esercito virtuale che sia in grado di controllare i social media, in particolare nei momenti di crisi.

In Iran stiamo assistendo a una crisi interna dalle radici storiche profonde . Il tema della “libertà di espressione”, letta in questo caso attraverso i vincoli dettati all’abbigliamento femminile, è stato sempre al centro dell’attenzione come una norma religiosa e ideologica che, anno dopo anno, ha perso influenza, nonostante tanti programmi e investimenti. Bisogna considerare che sono ormai passati oltre quarant’anni dalla Rivoluzione islamica e, sebbene il dress code preferito nella sfera pubblica da parte del governo preveda l’uso del chador (il velo nero lungo che scopre solo la faccia e le mani), giorno dopo giorno si sono fatti strada i modelli con disegni dai colori vivaci, al posto del vestiario largo, lungo, con foulard dai colori spenti e scuri. In Iran l’industria della moda si è sviluppata tantissimo e gli stilisti, soprattutto se donne, sono diventati molto attivi e creativi a causa delle regole sull’abbigliamento. Il mercato della moda negli ultimi anni ha cercato di soddisfare le richieste della nuova generazione – nonostante il calo demografico, l’età media della popolazione è di 32 anni - ma confrontando anche le difficoltà di libertà per un abbigliamento femminile e maschile sotto un regime che cerca di salvare i propri principi ideologici, strumentalizzando il corpo femminile per l’agenda politica.

Tutti questi elementi mostrano che la maggioranza della società iraniana è in armonia con la nuova generazione e lascia nuovo spazio al ruolo della donna, cruciale per un sistema basato sulla giustizia e sui diritti civili. Gli stessi iraniani che hanno partecipato alle manifestazioni, nonostante la rabbia crescente verso il governo, hanno sostenuto con tanta consapevolezza la lotta delle donne, certi che la realizzazione delle loro rivendicazioni potrà portare gli iraniani verso una riforma fondamentale di un sistema fragile e del tutto inadeguato.