Spesso accusata a torto di soffrire di un deficit democratico, l’Unione europea ha programmato una Conferenza sul futuro dell’Europa che si avvierà il 9 maggio, festa dell’Europa. Una data che coincide con l’anniversario della dichiarazione dell'allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman che nel 1950 propose la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), considerata la madre di tutte le istituzioni dell’Europa unita.

La Conferenza, prevista inizialmente per la primavera 2020, ma ritardata a causa della crisi pandemica, si basa su una dichiarazione tripartita firmata il 10 marzo scorso da David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, Antonio Costa, attuale presidente del Consiglio dell’Unione europea e da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, si intitola: Dialogo con i cittadini per la democrazia. Costruire un’Europa più resiliente. In essa si descrivono i principi dell’organizzazione e delle modalità di lavoro della Conferenza.

L’obiettivo dichiarato è quello di conferire ai cittadini un ruolo più incisivo nella definizione delle politiche e delle ambizioni dell'Unione europea grazie a uno spazio di incontro pubblico nel quale si svolga «un dibattito aperto, inclusivo, trasparente e strutturato con i cittadini europei sulle questioni che li riguardano e che incidono sulla loro vita quotidiana». Gli argomenti da trattare sono dettati in parte dalla situazione attuale: la salute e i cambiamenti climatici; in parte dalle sfide a cui è confrontata l’Unione europea: equità sociale e trasformazione digitale; in parte da problemi strutturali: ruolo dell'Unione nel mondo e rafforzamento dei processi democratici che governano l'Europa. La scelta degli argomenti e il loro approfondimento dipenderanno dalle preferenze espresse dai cittadini europei che parteciperanno alla conferenza.

La dichiarazione tripartita prevede, inoltre, la governance della Conferenza che è stata conferita a un Comitato esecutivo, organismo coadiuvato da una segreteria comune e composto da rappresentanti di Parlamento, Consiglio e Commissione, che esercitano congiuntamente la presidenza, e da un certo numero di osservatori provenienti dalle altre istituzioni europee.

Oltre alle plenarie, è prevista l’organizzazione di panel tematici, che coprono l’insieme delle questioni oggetto della Conferenza. I dibattiti nazionali ed europei, da cui scaturiranno idee e proposte, saranno alimentati grazie a una piattaforma digitale multilingue interattiva, allo scopo di diffondere le informazioni necessarie a svolgere una discussione la più ampia possibile. I panel di cittadini europei hanno lo scopo di dare vita a forme e modalità di discussione delle proposte e di valutazione del loro impatto, note come democrazia deliberativa. Le sessioni plenarie avranno cadenza semestrale con il compito di stilare un bilancio degli esiti già conseguiti e a (ri)orientare le discussioni successive. Infine, è prevista una sessione plenaria finale che si concluderà nella primavera del 2022. Da sottolineare, che anche i Parlamenti nazionali invieranno loro rappresentanti in qualità di osservatori.

Come si può vedere, si tratta di un esperimento di discussione transnazionale aperta alla partecipazione di milioni di persone che non ha precedenti. Da un lato, ambiziosissimo; dall’altro, segnale straordinariamente importante di fiducia nella democrazia e nelle sue pratiche. Si incrocerà inevitabilmente con l’attuazione del programma Next Generation Eu, forse contribuendo ad aggiustamenti probabilmente dandogli ancora maggiore vigore. L’Unione europea scommette su sé stessa, sulla capacità di trovare al suo interno le risorse intellettuali e politiche per aprire una nuova fase, di ripresa e di rilancio.

Il dialogo sulla democrazia con i cittadini è la premessa per costruire un’Europa più resiliente. Ma come sarà possibile contrastare le critiche alle carenze di democrazia nell’Unione e chiarire le modalità attraverso le quali l’Unione riuscirà a diventare e rimanere davvero più resiliente?

La Dichiarazione comune sul futuro dell’Europa contiene esplicitamente impegni di notevole importanza, che si compenetrano. Come si è visto, il dialogo sulla democrazia con i cittadini è la premessa per costruire un’Europa più resiliente. Ma come sarà possibile contrastare le critiche alle carenze di democrazia nell’Unione e chiarire le modalità attraverso le quali l’Unione riuscirà a diventare e rimanere davvero più resiliente?

Troppo spesso l’Unione europea è accusata di avere notevoli deficit democratici. Tout court di non essere democratica, tanto che qualcuno ha sostenuto che una sua ipotetica domanda di accesso sarebbe respinta perché non rispetterebbe i criteri che l’Unione europea impone ai «pretendenti». Giusto che il dibattito sulla democraticità dell’Unione sia aperto, ma merita di essere molto meglio presentato e discusso. La nostra posizione è che, a prescindere da molte considerazioni, l’Unione europea è comunque una democrazia in the making, in corso d’opera.

È innegabile che l’Ue abbia quasi tutte le caratteristiche proprie delle democrazie liberali, essendo nei fatti il più grande spazio di diritti esistente al mondo. Non solo i cittadini europei godono della più ampia gamma possibile dei diritti civili, ma anche di tutti i diritti politici: votare e essere votati, fare propaganda politica e costruire organizzazioni politiche dei più vari tipi, criticare e contestare la stessa esistenza dell’Ue. Inoltre, questi diritti sono protetti e promossi in maniera impeccabile, troppo spesso sottovalutata e talvolta addirittura ignorata, dalla Corte europea di giustizia. Lungi dall’essere un super-Stato oppressore, l’Unione europea è in realtà uno Stato dotato delle essenziali caratteristiche liberali.

I critici sostengono che il deficit sta nella limitata democraticità delle sue istituzioni​: quanto ai capi di governo che difendono interessi nazionali, questo è un deficit di europeismo attribuibile a comportamenti che poco hannoo a che vedere con la democrazia nell’Unione europea

I critici sostengono che il deficit sta nella limitata democraticità delle sue istituzioni, un punto che merita una riflessione limpida e approfondita. In estrema sintesi, il Consiglio è composto dai capi di governo degli Stati. Ciascuno di loro è tale perché ha aggregato a suo sostegno la maggioranza assoluta degli elettori del proprio Stato. Se perde quella maggioranza viene regolarmente e democraticamente sostituito da chi comunque è sostenuto da un’altra maggioranza. Quindi, non è corretto porre in discussione la legittimità di ciascuno dei componenti del Consiglio né del Consiglio stesso nella sua interezza. Debbono, invece, essere prese in seria considerazione le critiche rivolte alle modalità di funzionamento del Consiglio, in particolare, la necessità di votazioni all’unanimità. Pur essendosi ridotto l’ambito delle materie sulle quali è richiesta l’unanimità, questa modalità di votazione (la cui democraticità è del tutto discutibile poiché attribuisce enorme potere a un solo componente), permane per quel che riguarda materie come la politica estera e di sicurezza, la fiscalità e le questioni sociali rendendone molto difficile il ridimensionamento. Quanto ai capi di governo che difendono interessi nazionali, questo semmai è un deficit di europeismo attribuibile ai comportamenti di quei capi di governo che poco ha a che vedere con la democrazia nell’Unione europea.

Non soltanto il Parlamento europeo è l’istituzione democratica per eccellenza nel circuito delle istituzioni dell’Unione, ma è quella che nel corso del tempo ha acquisito maggiore centralità e poteri. Istituzione che garantisce rappresentanza ai cittadini europei da loro eletto, quindi, pienamente legittimato, dai numeri del Parlamento nasce la presidenza della Commissione, dalle udienze conoscitive viene saggiata la qualità dei diversi commissari in quanto a competenza, affidabilità e europeismo, dal voto del Parlamento viene insediata la Commissione nella sua interezza, da quel voto la Commissione è anche sfiduciabile.

Ciò detto e sottolineato, è opportuno prendere in considerazione alcune critiche. La prima molto nota e persino eccessivamente ripetuta è che le elezioni del Parlamento europeo sono di «secondo grado», vale a dire ritenute dagli elettori meno importanti delle elezioni nazionali (di primo grado). La seconda è che sono «combattute» prevalentemente su tematiche nazionali piuttosto che su tematiche effettivamente europee. La terza è che l’affluenza complessiva dei cittadini europei alle urne è piuttosto bassa, oscillando intorno al 50% (nel 2019), comunque nettamente inferiore a quelle delle rispettive elezioni nazionali. Solo in parte queste inadeguatezze, che non giustificano l’accusa di deficit democratico, riguardano la democraticità dell’Unione europea. Piuttosto riguardano i partiti nazionali in attesa che decidano di trasformarsi in autentici partiti transnazionali, a condizione ovviamente che riescano a farlo.

Con i suoi componenti designati dai capi di governo riuniti nel Consiglio europeo, anche se poi “fiduciati” dal Parlamento, la Commissione non può ovviamente godere di legittimità democratica direttamente espressa dai cittadini europei

Con i suoi componenti designati dai capi di governo riuniti nel Consiglio europeo, anche se poi «fiduciati» dal Parlamento, la Commissione non può ovviamente godere di legittimità democratica direttamente espressa dai cittadini europei. Tuttavia, farne, con espressione che contiene una valutazione fortemente negativa, un organismo asetticamente tecnocratico (irresponsabile, privo di riferimenti) è del tutto sbagliato. La Commissione è composta da uomini e donne, spesso con competenze di alto livello, ma anche con una biografia politica tutt’altro che irrilevante che include una loro propensione europeista positivamente valutata dal Parlamento europeo al momento della loro nomina. Quanto alla responsabilizzazione politica, tutti i commissari sanno di dovere rispondere del loro operato al Parlamento europeo. Infine, dalle loro memorie e dalle loro dichiarazioni, è possibile accertare che la grande maggioranza di loro ha inteso spogliarsi delle proprie appartenenze nazionali per interpretare e dare forma a (parafrasando de Gaulle) «una certa idea di Europa».

Se, dunque, è possibile sostenere che il deficit democratico dell’Unione europea non può essere fatto risalire alle modalità con le quali le sue istituzioni vengono formate, persistendo le critiche diventa essenziale guardare in maniera più approfondita al loro funzionamento. Due critiche appaiono di una certa consistenza.

La prima riguarda una eccessiva apertura a una molteplicità di interessi organizzati, con quelli più forti che hanno maggiori possibilità di influenza sulle decisioni. L’ansia di includere il maggior numero di interessi nelle procedure decisionali, attuata attraverso varie forme tra cui le consultazioni pubbliche, incide sui tempi e sulla qualità del prodotto. A ciò si aggiunge il processo conosciuto come «comitatologia», utilizzato per l’adozione della legislazione di dettaglio, che rischia di favorire gli interessi dei più forti e a tale scopo dovrebbe (potrebbe) essere oggetto di maggiore trasparenza e di una più severa selezione degli interessi.

L’ansia di includere il maggior numero di interessi nelle procedure decisionali, attuata attraverso varie forme tra cui le consultazioni pubbliche, incide sui tempi e sulla qualità del prodottoLa seconda critica attiene alla burocratizzazione delle modalità di funzionamento delle Direzioni generali della Commissione europea con il cosiddetto acquis communautaire che sembra giustificare la continuità («si è sempre fatto così») e al tempo stesso finisce per tarpare sul nascere qualsiasi innovazione. Malgrado la riforma attuata dalla coppia Prodi-Kinnock nel 2000, queste critiche persistono e sollecitano maggiori innovazioni amministrative.

Di recente è emersa una terza critica, più sottile e insidiosa, che riguarda, per ragioni che in parte discendono dalle prime due, l’opacità dei processi decisionali. Per chi ritiene che la democrazia debba vivere e agire in una casa di vetro, l’oscurità del castello europeo impedisce di vedere chi, come, con quali informazioni e con quali intenzioni, prende le decisioni e quindi di ritenerlo responsabile anche per poterne correggere compiacenze, insufficienze e errori. Anche se l’introduzione prevista dal Trattato di Lisbona della possibilità per un milione di elettori europei cittadini di almeno otto Stati membri di sollecitare iniziative legislative da inserire nell’agenda dell’Unione su tematiche importanti evitate o trascurate dagli organismi decisionali dell’Unione, è un passo importante nella direzione giusta, altre misure meritano di essere pensate e congegnate.

Se la Conferenza sul futuro dell’Unione europea che sta per partire è fatta anche per ottenere maggiore coinvolgimento e più ampia e incisiva partecipazione dei cittadini europei, allora i compiti della sburocratizzazione, della trasparenza, della responsabilità di decisioni e non-decisioni dovranno figurare in maniera esplicita sull’agenda. Dovranno, in definitiva, costituirne parte molto rilevante.