Il 25 giugno 1950 scoppiava la guerra di Corea. Fu quella un’occasione eccezionale per indirizzare l’Europa verso il superamento della sua divisione secolare. Come la Germania, la Corea era stata divisa a Potsdam in due zone di occupazione, rispettivamente a Nord e a Sud del 38° parallelo e, come in Germania, la divisione si era consolidata, dando luogo a realtà politico-statali antagonistiche. Era dunque vivo il timore che il tentativo di riunificare il Paese con la forza effettuato dai nord-coreani potesse essere ripetuto nel cuore dell’Europa. Il massiccio coinvolgimento militare americano nel Pacifico, d’altro canto, aumentava le preoccupazioni del Pentagono sulla possibilità concreta di contenere un eventuale attacco sovietico in Germania.

Nel nuovo contesto creato dalla guerra di Corea, il governo americano ritenne fosse giunto il momento opportuno per sollecitare un contributo più dinamico dell’Europa alla sua difesa convenzionale, attraverso un rafforzamento degli eserciti europei cui avrebbe dovuto partecipare anche la Germania occidentale. Alla riunione del Consiglio atlantico di New York, il 15 settembre 1950, essi proposero, a fronte di un loro impegno finanziario e militare alla difesa dell’Europa, l’allestimento da parte europea di 60 divisioni, di cui 10 avrebbero potuto essere tedesche, sottoposte a un unico comando sotto la guida del generale Eisenhower. I francesi si opposero, non confutando la necessità di un riarmo, ma temendo le conseguenze del riarmo tedesco. La riunione fu aggiornata al 29 ottobre.

Fu Jean Monnet, in quei giorni di frenetiche consultazioni, ad avanzare un’idea nuova per uscire dall’impasse: sul modello politico-istituzionale della Ceca, egli propose d’inserire i nuovi contingenti militari tedeschi in un esercito europeo, gestito da istituzioni sovrannazionali, integrato, al livello di unità le più basse possibili, sotto il profilo del comando, dell’organizzazione, dell’equipaggiamento e del finanziamento. Il 24 ottobre, il progetto veniva presentato dal primo ministro francese, René Pleven, all’Assemblea nazionale francese e, di fatto, al mondo intero, dando avvio all’iter che avrebbe condotto, il 27 maggio 1952, alla firma del progetto di Trattato della comunità europea di difesa (Ced).

Mentre negli Stati uniti si affrontava il problema tedesco principalmente nel contesto della politica di contenimento della spinta espansionista sovietica, nella Francia più lungimirante lo si affrontava dunque in modo da mettere fine, una volta e per sempre, a ogni possibile ripresa di una politica aggressiva da parte dei tedeschi. Monnet proponeva di rovesciare il punto di vista e cercare di risolvere il problema tedesco cambiandone i dati, «trasformandolo» attraverso una rivoluzione copernicana dei rapporti tra gli Stati europei. Proponeva, in definitiva, l’unificazione europea sulla base di un nuovo modello di governance. L’avvenimento era epocale e prefigurava un forte elemento di cambiamento sul terreno delle relazioni internazionali, poiché inseriva in nuce nel contesto della politica mondiale un soggetto nuovo: l’Europa integrata, seppur in quel momento parzialmente, sia sotto il profilo territoriale che sotto quello politico.

Faceva difetto, tuttavia, la strategia utilizzata per raggiungere l’obiettivo: l’integrazione di carattere settoriale, pur appena felicemente avviata con la Ceca, era poco adatta all’integrazione di un settore come quello della difesa, uno dei pilastri fondamentali della statualità. Nell’estate 1951, presa visione del Rapport intérimaire elaborato dalla conferenza della Ced, fu il federalista europeo Altiero Spinelli a rilevare la contraddizione di fondo insita nell’obiettivo di costruire un esercito europeo senza creare lo Stato al cui servizio l’esercito avrebbe dovuto combattere. In un memorandum inviato al presidente del Consiglio italiano Alcide De Gasperi, Spinelli affrontava con razionalità il problema centrale della costruzione di una difesa europea: la Ced poteva precedere la fondazione costituzionale di uno Stato europeo? Come sarebbe stato possibile creare un esercito europeo senza una politica estera comune, una politica economica e finanziaria comune, una politica fiscale comune, in definitiva, senza un governo europeo?

Fu Altiero Spinelli a rilevare la contraddizione di fondo insita nell’obiettivo di costruire un esercito europeo senza creare lo Stato al cui servizio l’esercito avrebbe dovuto combattere

Fu poi De Gasperi a farsi paladino presso i capi di Stato e di Governo europei del collegamento dell’esercito europeo a organismi che avrebbero potuto preludere alla creazione di una comunità politica, e quindi alla nascita di una «patria europea». De Gasperi esortava a non costruire solo amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore e le indispensabili istituzioni di una comunità democratica, espressione della sintesi delle volontà nazionali. Sentiva in particolare la necessità di far qualcosa che presentasse attrattive per la gioventù europea, evitando la creazione di «una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva» e proponendo, contro il risorgere di nazionalismi nefasti, la realizzazione di idee nuove di unità e pacificazione. «Se noi chiamiamo le forze armate dei diversi Paesi – affermava durante un discorso all’assemblea consultiva del Consiglio d’Europa il 10 dicembre 1951 – a fondersi insieme in un organismo permanente e costituzionale e, se occorre, a difendere una patria più vasta, bisogna che questa patria sia visibile, solida e viva».

Il trasferimento a livello europeo di ampie competenze della sovranità nazionale avrebbe comportato una reale limitazione della sovranità nazionale, che avrebbe potuto essere compensata solo attraverso l’istituzione di organismi responsabili a livello sovrannazionale, in particolare un’assemblea rappresentativa eletta a suffragio universale, nei cui confronti l’organo esecutivo della Comunità sarebbe stato responsabile. De Gasperi era convinto che, se fosse stata lasciata passare invano, l’occasione storica affacciatasi in Europa a inizio anni Cinquanta non si sarebbe più ripresentata. Le sue parole sono note: «Ciascuno sente che questa è l’occasione che passa e non tornerà più». Mentre il progetto iniziale di difesa comune si concentrava sui soli aspetti militari, la sua proposta – che sarebbe sfociata nel 1953 nella redazione, da parte dell’assemblea ad hoc (l’assemblea allargata della Ceca), del primo progetto di trattato europeo istitutivo di una comunità politica europea – mirava invece alla creazione di una statualità autonoma.

La Ced, tuttavia, non riscuoteva il consenso di larghi strati della popolazione, dai nazionalisti ai militari, dall’estrema destra all’estrema sinistra, con una significativa spaccatura anche in ambito socialista. Il 30 agosto 1954, il progetto di esercito europeo, di fronte al montare dei conflitti legati alla decolonizzazione (tra tutti, quello d’Indocina) e nel nuovo clima di distensione venutosi a creare dopo la morte di Stalin, fu affossato a opera, paradossalmente, di quella stessa Assemblea nazionale francese che ne era stata la promotrice.

L’occasione era passata, ma la storia ci stupisce talora con la sua razionalità e torna ora a riproporci pressantemente il tema. «La necessità di unire l’Europa è evidente – scriveva nel marzo 1954 il presidente della Repubblica italiana, Luigi Einaudi, contro il conclamato realismo di chi, non avendo saputo trarre lezione dalla grande sconfitta europea nella Seconda guerra mondiale, continuava a pensare e agire in termini nazionali –, gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione, è fra l’esistere uniti e lo scomparire».

Il 24 febbraio 2022 è scoppiata la guerra in Ucraina. Certo, il contesto internazionale è molto cambiato rispetto al passato. Il mondo è ora multipolare, e multipolare è soprattutto la gestione dell’arma atomica. Da molto tempo ormai, a partire dal lancio dello Sputnik nel 1957, i missili a lunga gittata possono colpire ovunque sulla terra. Il sistema mondiale degli Stati, che dopo la seconda guerra ha sostituito quello europeo, ha perso completamente la sua flessibilità, non potendosi valere, come nel passato, della presenza di quegli spazi «marginali» esterni – le potenze marittime dell’Occidente o le grandi potenze periferiche dell’Oriente – che del sistema costituivano elemento di riequilibrio. Non si odono neanche levarsi da qualche parte nel mondo quelle accorate e pressanti richieste di presa di coscienza sull’uso militare dell’atomica e sulla necessità politica di costruire la pace che contrappuntarono la seconda guerra e l’immediato dopoguerra, provenendo soprattutto dagli scienziati e sfociando in alcuni casi – quello di Albert Einstein su tutti – nella richiesta di un governo mondiale dell’atomica.

La posta in gioco non è il confine più o meno spostato verso Est o verso Ovest, ma la costruzione di un nuovo ordine mondiale multipolare e il ruolo dell’Europa al suo interno

Ma alcune dinamiche sembrano riproporsi e il problema posto da Einaudi rimane invariato. Come la Prima e la Seconda guerra mondiale, la guerra in Ucraina rappresenta l’epifenomeno della ridefinizione in corso degli equilibri di potenza a livello mondiale, una redistribuzione del potere tra vecchi e nuovi soggetti del sistema internazionale degli Stati nell’epoca, questa volta, del travagliato passaggio al post-bipolarismo, di fatto già da tempo avviato sotto traccia a partire ben prima, a saper leggere gli eventi con sguardo di lunga durata, del 1989. Con buona pace dei tanti che presero l’abbaglio dell’unilateralismo americano. Come negli anni Cinquanta, l’Europa torna a chiedersi quale sia il suo posto nel mondo e come perseguire il suo obiettivo, riscoprendo, sotto l’impulso della paura, i motivi dell’unione e le debolezze della divisione in Stati sovrani, ma soprattutto mettendo in circolo energie creative pronte all’azione, in un contesto di nuovo favorevole all’unificazione continentale. La posta in gioco non è, come si potrebbe erroneamente pensare, il confine più o meno spostato verso Est o verso Ovest, ma la costruzione di un nuovo ordine mondiale multipolare e il ruolo che l’Europa, al suo interno, potrà e vorrà giocare.

In particolare, si torna a parlare di una difesa comune europea, di cui di nuovo è la Francia, questa volta di Emmanuel Macron, a farsi paladina. Manca però anche in questa occasione il tassello essenziale – la comunità politica europea, la statualità europea – a prescindere dal quale la difesa europea resterebbe priva di autonomia. Quale politica estera europea, quale politica di bilancio e fiscale? Dove sono i De Gasperi, gli Spinelli, a rammentare l’assurdità di creare una difesa europea, un esercito europeo, in assenza di una politica estera comune, espressione di un governo europeo e quindi di una statualità, federale, europea?

La lezione degli anni Cinquanta potrebbe oggi aiutarci di nuovo a uscire dall’impasse. Essa ci insegna, con Monnet, che la paura genera paralisi, e la paralisi porta al fatalismo. Ma l’elemento di crisi che s’innesta nel sistema – la guerra in Ucraina, in questo caso – può suscitare idee capaci di «cambiare il corso degli avvenimenti», attraverso radicali cambiamenti di prospettiva. Se l’abituale risposta alla paura della guerra prevede il rafforzamento della difesa, il riarmo, la chiusura dei confini, l’innalzamento di barriere, l’accentramento del potere, il nazionalismo economico, i padri fondatori dell’Europa hanno dimostrato che si può minare alla base la logica della Guerra fredda, facendo uscire l’Europa dalle secche dello scontro prettamente bipolare. Occorre sin d’ora pensare al futuro post bellico e preparare prospettive solide di pace duratura sul continente eurasiatico. Cemento dell’Europa non può essere la «contrapposizione a», bensì la «costruzione di» e, soprattutto, la «costruzione con».