Dalla fine del 2015 in Italia sono stati avviati i cosiddetti «corridoi umanitari» attraverso la conclusione di appositi protocolli tra il ministero degli Interni e diverse associazioni ecumeniche, quali la Comunità di sant’Egidio, la Federazione delle Chiese evangeliche e la Tavola valdese, in collaborazione con la Chiesa cattolica italiana. Si tratta di una iniziativa di sponsorship privata rivolta a potenziali beneficiari di protezione internazionale, in particolare persone vulnerabili, per favorire il loro ingresso in Italia in modo legale e in condizioni di sicurezza, allo scopo di presentare la propria domanda di protezione internazionale alle competenti autorità italiane.

Già nel primo Rapporto sui corridoi umanitari in Italia, a cura della Caritas italiana, emerge bene come l’esperienza dei corridoi umanitari abbia permesso concretamente a molti l’accesso alla protezione internazionale senza la necessità di intraprendere viaggi pericolosi o di rivolgersi ai trafficanti di esseri umani. Ma qual è il quadro attuale degli ingressi tramite i corridoi umanitari e quale la loro effettiva incidenza rispetto agli arrivi irregolari e ai viaggi della morte?

Le modalità applicative dei protocolli, descritte più analiticamente nel Manuale sui corridoi umanitari, possono essere ricondotte a tre fasi principali: a) il pre-screening per individuare i beneficiari del progetto (potenziali rifugiati) eventualmente segnalati dagli stessi enti promotori, che si svolge nel Paese di provenienza o di transito con il supporto di organizzazioni internazionali (Unhcr, Oim, Cri e altre incaricate); b) l'organizzazione del viaggio attraverso l’invio della lista dei potenziali beneficiari selezionati al ministero dell’Interno – per i controlli necessari al rilascio del visto, nonché per quelli successivi all’ingresso, dei potenziali beneficiari – e al ministero degli Affari esteri – per il rilascio del visto umanitario sulla base dell’art. 25 del Regolamento (Ce) n. 810/2009 (Codice dei visti), anche in deroga al Codice frontiere Schengen; c) infine, il progetto di integrazione, una volta giunti in Italia, tramite appositi percorsi di inclusione sociale a carico delle associazioni promotrici, al di fuori quindi del sistema di accoglienza predisposto dall’ordinamento italiano.

I costi dell’intera organizzazione sono a carico dell’ente patrocinatore, ma nei protocolli del 2021 per la realizzazione attraverso dei corridoi delle evacuazioni dalla Libia e dall’Afghanistan è stato previsto che il ministero dell’Interno possa farsi carico di una parte delle spese, anche tramite contributi da parte dell’Unione europea.

L’esperienza di questi due progetti del 2021 ne ha rivelato però anche i principali limiti: da un lato le difficoltà spesso riscontrate nella realizzazione delle prime due fasi e, dall’altro, il carattere non vincolante di questi canali di accesso da parte dello Stato, che resta sempre libero di decidere se attivarli o meno.

I tempi lunghi della procedura di selezione dei beneficiari si sono mostrati inadeguati rispetto all’esigenza di una risposta urgente alla situazione di crisi

Sotto il primo profilo, i tempi lunghi della procedura di selezione dei beneficiari si sono mostrati inadeguati rispetto all’esigenza di una risposta urgente alla situazione di crisi, procedura poi ulteriormente complicata dalla necessità di eseguirla nei Paesi limitrofi, ponendo a carico dei richiedenti la fuga dal Paese di origine. Inoltre, anche nella fase di organizzazione del viaggio sono stati riscontrati non pochi problemi nel rilascio dei visti e nell’accesso alle ambasciate dei Paesi limitrofi denunciate dalle associazioni, atteso il silenzio della rappresentanza diplomatica italiana.

Sotto il secondo profilo, in risposta alla questione sull’obbligo statale di rilasciare il visto a territorialità limitata (art. 25 del Codice dei visti), particolarmente prudente è l’ancora attuale orientamento prevalente della Corte di giustizia dell’Ue (caso X e X c. Belgio del 2017) e della Corte europea dei diritti umani (caso M.N. e altri c. Belgio del 2020), che sottolineano una piena discrezionalità dello Stato in questa materia, ritenendo inaccettabile desumere un obbligo d’ingresso a carico dello Stato sempre e comunque in tutti i casi in cui il rifiuto di concedere il visto esponga i destinatari al rischio di subire torture o trattamenti inumani e degradanti.

Ciononostante, dal febbraio 2016 a oggi, numerose sono le notizie e le esperienze dirette positive sugli arrivi tramite i corridoi umanitari. Da ultimo, lo scorso 18 marzo, le testimonianze di una rifugiata eritrea e di una rifugiata siriana ricevute da papa Francesco in occasione dell’udienza delle famiglie accolte con il sostegno della Comunità di sant’Egidio. Nel discorso del papa, «i corridoi umanitari sono una via praticabile per evitare le tragedie e i pericoli legati al traffico di esseri umani. Tuttavia, occorrono ancora molti sforzi per estendere questo modello e per aprire percorsi legali per la migrazione».

In effetti, questa prassi di cooperazione tra governi e società civile è stata finora replicata solo da Francia, Belgio e Andorra (accogliendo 770 persone, prevalentemente provenienti dal Libano), sebbene ampiamente incoraggiata anche a livello europeo dalla stessa Commissione europea che la definisce come una misura capace di ridurre la migrazione irregolare e, più di recente, dalla sua presidente Ursula Von der Leyen che menziona i corridoi umanitari italiani parlando di un’esperienza «estremamente positiva».

L’Unione europea sembra ancora prediligere una diversa misura di ingresso legale e protetto che, a differenza dei corridoi umanitari, prevede che la procedura per la richiesta di asilo venga conclusa già in loco nei Paesi di origine

Tuttavia, l’Unione europea sembra ancora prediligere una diversa misura di ingresso legale e protetto, il reinsediamento (o resettlement) che, a differenza dei corridoi umanitari, prevede che l’intera procedura per l’esame della richiesta di asilo venga conclusa già in loco nei Paesi di origine o di transito; in buona sostanza, chi è stato già riconosciuto come rifugiato viene reinsediato sul presupposto che il Paese extra-Ue in cui ha cercato asilo non sia in grado di assicurare una protezione o un’efficace integrazione sul suo territorio. Anche in questi casi rimane ferma la non obbligatorietà dell’adesione a questi programmi da parte dello Stato.

Secondo i dati dell’Unhcr, tra il 2015 e il 2023 nei Paesi membri Ue sono state reinsediate 111.295 persone e solo in Italia si contano 2.559 reinsediati, quasi la metà di quelli accolti nello stesso periodo di riferimento tramite i corridoi umanitari, attraverso i quali l’Italia ha accolto 5.428 persone provenienti dal Libano, dall’Etiopia, dalla Grecia, dalla Libia, dal Niger, dalla Giordania, dall’Afghanistan e da Cipro.

In conclusione, se è vero che il numero degli ingressi regolari tramite i corridoi umanitari è di molto inferiore rispetto ai continui arrivi irregolari, è anche vero che questo modello esemplare di azione umanitaria, fino a questo momento perseguito solo dall’Italia (e più timidamente da altri tre Paesi dell’Europa), potrebbe sortire effetti positivi ancora più significativi se costantemente replicato anche in tutti gli altri Paesi. Obiettivo sicuramente ambizioso – specie se si intende utilizzare questi modelli per creare corrispondenti obblighi di ingresso a carico degli Stati – ma non impossibile da  perseguire, come conferma l’esperienza dei corridoi umanitari in Italia. Invero, nell’evidente difficoltà dell’Unione europea e dei suoi Stati membri di attuare risposte più efficaci, è innegabile l’impegno tenace della società civile attraverso queste iniziative umanitarie che, comunque, hanno salvato e continuano a salvare vite.