Negli anni Settanta del secolo scorso un noto detersivo inventò uno slogan che fece epoca: "Lava così bianco che più bianco non si può". Cinquant’anni dopo tutte le aziende dicono ai consumatori che i loro prodotti sono "così verdi che più verdi non si può". Si tratta purtroppo nella grande maggioranza dei casi, ora come allora, di un "lavata" di facciata di molte imprese ai danni dei consumatori. Una trovata di marketing. Ma questa volta più maliziosa. Le aziende vestono di verde le loro etichette per entrare in sintonia con il sentimento del mercato, soprattutto quello dei più giovani, maggiormente attenti ai temi ambientali.

Ma c’è qualcuno demandato dalla legge a giudicare sulla conformità delle dichiarazioni e dei comportamenti che le imprese attuano per ridurre il loro impatto sull’ambiente? Quando leggiamo questa o quella dicitura, chi ci assicura che l’informazione sia davvero corretta, reale, testata? In definitiva certificata da un soggetto indipendente e terzo e non una mera didascalia nata dalla fantasia dei professionisti dell’ufficio marketing dell’azienda? Spesso dietro quell’informazione "urlata" si cela solo una accattivante dicitura divenuta necessaria nel packaging moderno, il cui scopo è offrire un tributo effimero alla sostenibilità per acquietare la suscettibilità ambientalista dei nuovi consumatori.

Il greenwashing interseca dunque in modo sempre più pervasivo diversi aspetti della relazione che si instaura fra imprese, mercato e comunità quando i consumatori del pianeta – soprattutto quelli occidentali, maggiormente sollecitati dal tema – effettuano le loro scelte d’acquisto. Il primo punto riguarda la responsabilità sociale d’impresa e la sua reale attuazione da parte delle industrie. Il secondo punto interroga sul dovere delle istituzioni di controllare la corretta comunicazione rivolta ai consumatori da parte delle aziende. Il terzo punto accende la luce sulla concorrenza sleale che subiscono le imprese realmente impegnate in un processo di sostenibilità da parte dei concorrenti insensibili al tema. Da un lato ci sono infatti imprese che vivono la loro natura verde solo come un aspetto di marketing, senza alcun reale investimento sulla sostenibilità per diminuire il loro impatto sull’ambiente. Dall’altra ci sono realtà imprenditoriali che si impegnano con sforzi economici imponenti in ricerca e innovazione per ridurre davvero il loro impatto.

Sul tema è impegnata da tempo la Commissione europea che sta elaborando il nuovo piano contenuto nella direttiva Green Claims. Già nel 2020 uno studio commissionato da Bruxelles aveva mostrato come nel 53,3% dei casi le informazioni di natura ambientale esaminate e riferite ai prodotti in vendita sul mercato europeo fossero "vaghe, fuorvianti o infondate" e che addirittura il 40% fosse "del tutto infondato". L’obiettivo delle nuove regole europee è quello di impedire che le diciture sui prodotti contengano comunicazioni che non possano essere dimostrate dalle aziende con prove scientifiche. L’Europa vuole dunque dire basta in modo definitivo alle autodichiarazioni aziendali per garantire ai consumatori informazioni "attendibili, comparabili e verificabili" in tema di sostenibilità ambientale. Il deterrente contro le aziende che adottano questi comportamenti sleali sarà fornito da un rigido e severo sistema sanzionatorio che garantisca i cittadini e le imprese virtuose. Dunque, la nuova direttiva vuole introdurre un sistema preventivo di verifica indipendente basato su prove scientifiche, senza il quale non sarà consentito alle imprese di comunicare dichiarazioni ambientali sui propri prodotti.

Già nel 2020 uno studio commissionato da Bruxelles aveva mostrato come nel 53,3% dei casi le informazioni di natura ambientale esaminate fossero "vaghe, fuorvianti o infondate"

Ma siamo sicuri che la strada giusta sia quella della rigida regolamentazione europea? Non ne è convito Filippo Addarii, co-fondatore di PlusValue, società con sede a Londra e Milano che accompagna grandi attori del mercato impegnati nel cambiamento per raggiungere un futuro più sostenibile.

“Rigore e integrità negli standard di sostenibilità sono indispensabili per la tutela di produttori e consumatori, ma dubito che questo possa essere garantito ex lege. Le istituzioni pubbliche sono lente nei processi decisionali, non si adattano prontamente all’impatto dell’innovazione scientifica e tecnologica, e per accontentare i gruppi di interesse sono costrette a cedere sulla qualità per adagiarsi in un’aurea mediocritas. Siamo testimoni delle difficoltà incontrate dalle istituzioni nelle applicazioni al mercato degli standard Esg e della normativa europea sulla finanza sostenibile. Soprattutto quando si tratta di sanzionare i trasgressori. Allora qual è il punto? Evitiamo di alimentare la burocrazia che tra funzionari pubblici, certificatori, valutatori, consulenti e avvocati divorano le risorse necessarie alla transizione e trasformano la sostenibilità in un mero processo amministrativo. La strada da percorrere è un'altra: abbracciare la rivoluzione digitale e la passione che ritroviamo soprattutto nelle nuove generazioni creando un sistema di valutazione aperto, trasparente, fondato sui dati condivisi e i feedback degli utilizzatori con un sistema di monitoraggio affidato all’Intelligenza artificiale e all’occhio critico del pubblico. Questa è “open certification”. Il suo credo è creare valore, non solo adeguamento alla norma. Anche le istituzioni hanno un compito fondamentale: creare lo spazio per la sperimentazione così come Banca d’Italia ha fatto con la Sandbox per il fintech.”

Dunque, c’è un’altra soluzione oltre quella della stringente regolamentazione istituzionale affidata alla verifica e alla sanzione ex post. La soluzione che passa dalla maturità del consumatore, aiutato dall’Intelligenza artificiale: chi sceglie i prodotti è probabilmente il miglior sanzionatore possibile. Le aziende sleali devono temere di più il mancato acquisto dei consumatori capaci di distinguere, magari con l’ausilio di un’App, le false informazioni da quelle corrette, rispetto alla pena decretata dalle istituzioni pubbliche. Dal mercato può nascere il metodo più efficace per disincentivare un uso scorretto della comunicazione ambientale.

Non c’è da fidarsi della burocrazia, che spesso crea figure che poi nella pratica non sono capaci di svolgere il ruolo per le quali sono nate. Del resto anche sul tema della terzietà e della professionalità dei verificatori o dei soggetti che si autoproclamano esperti di sostenibilità la questione pone diversi problemi. Ne è convinto Idiano D’Adamo, professore associato all’Università di Roma La Sapienza , che ha introdotto il concetto del sustainable washing.

“C’è la tendenza a etichettarsi come esperti di sostenibilità pur non avendo le qualifiche necessarie. Per evitare il sustainable washing, i ricercatori devono fare attenzione a non presentarsi come esperti di sostenibilità a meno che non abbiano prodotto documenti scientifici appropriati sull'argomento o realizzato progetti di sostenibilità. Inoltre, i corsi di laurea non dovrebbero essere considerati sostenibili solo in virtù dell'inserimento di parole simboliche nel titolo del corso, se non c'è un reale cambiamento nel contenuto dell'insegnamento.”

Il principio di sussidiarietà, ovvero l'idea che, in diritto, se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l'ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne l'azione, potrebbe essere traslato anche in questo processo di autocontrollo sulle false informazioni in tema ambientale? I cittadini/consumatori, gli elementi costitutivi di ogni contesto sociale e istituzionale, forniti di strumenti innovativi grazie all'Intelligenza artificiale, sensibilizzati e consapevoli del ruolo che devono svolgere con i loro componenti virtuosi potrebbero essere lo strumento per superare il problema annoso del "chi controlla il controllore". L'Unione europea potrebbe scegliere la strada di un coinvolgimento diretto dei propri cittadini, chiamati a intervenire attivamente.

Apporre sul bavero della giacca una etichetta verde, sia che si venda un prodotto sia che si eserciti una professione, può essere una comoda scorciatoia

Apporre sul bavero della giacca una etichetta verde, sia che si venda un prodotto sia che si eserciti una professione, può essere una comoda scorciatoia in questa fase storica della società occidentale nella quale i temi del riscaldamento globale, del cambiamento climatico, della transizione energetica e della sostenibilità ambientale sono entrate a pieno titolo nelle agende della politica, dei media e degli interessi dei consumatori.

Il tema della sostenibilità non può essere una moda effimera. L’ennesima parola cool sfruttata fino all’estremo dai professionisti del marketing e della costruzione del consenso. Perché se le imprese, i cittadini/consumatori e i decisori globali falliranno le scelte aziendali, d’acquisto (di prodotto ed elettorali) e politiche per modificare l’attuale sistema di produzione e consumo, non ci saranno ulteriori chiamate d’appello per la nostra specie.