La campagna per il referendum costituzionale è appena entrata nel vivo, come si dice, eppure siamo già esausti. Appena finito di scrivere questa nota, ad esempio, il sottoscritto ricomincerà a battere coscienziosamente palcoscenici di provincia, incrociando le armi con rivali ancora più stanchi e meno convinti di lui. Il format dell’Evento, infatti, sembra definitivamente diventato il faccia-a-faccia: che ovunque si svolga – sul video, o in incontri pubblici – riscuote il consenso di tifoserie entusiaste.

Di solito, funziona così. Il sostenitore del «sì», spesso giovane e bello(a), snocciola convinto(a) i pregi della Renzi-Boschi; talvolta, specie se meno giovane e meno bello(a), sospira che, dopotutto, questa riforma è sempre meglio di niente. Il sostenitore del «no», specie se è un ex presidente della Corte costituzionale, spiega in modo sofferto i pericoli della riforma; se è solo un politico d’opposizione, invece, si limita a scalmanarsi contro il presidente del Consiglio.

I risultati sono alterni. In genere, prevalgono o i sostenitori del «sì» o quelli del «no», indifferentemente, purché si guardino bene dall’entrare nel merito. Anche perché, diciamolo, cosa dovremmo dire del merito? Cos’è meglio, il troppo poco o il quasi niente? Il «sì» a una riforma inutile se non controproducente, oppure un «no» che non indica uno straccio di alternativa? È un po’ come nelle dispute teologiche: più il quesito è confuso, più la discussione rischia di durare per secoli.

L’unico effetto ottenuto, sinora, è convincere la gente che tutto questo è tremendamente importante. E si capisce: ripeti una cosa, poi fatalmente qualcuno ci crede. È passata anche la sensazione che prendere posizione a favore del «sì» sia più rischioso che prenderla a favore del «no»: guardate cos’è capitato al povero Benigni. Grazie che poi qualcuno si sfila, come fra gli altri Roberto Esposito, o che qualcun altro non dice per cosa voterà neanche sotto tortura, come Romano Prodi.

Certo, in un soprassalto di onestà intellettuale, molti cominciano ad ammettere che non ne va del futuro del Paese, né della democrazia, ma, al massimo, dell’elezione del Senato da parte dei consigli regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano... Poi il risultato verrà deciso da fattori imponderabili, come nei giudizi di Dio: il tempo che farà, la formulazione del quesito, le promesse a pioggia di rinnovi contrattuali o benefici fiscali, il recupero degli indecisi...

Però mettiamo in conto anche l’usura delle facce che si sono spese nel dibattito: compresa la mia. Con che faccia mi presenterò ai miei studenti, infatti, dopo aver partecipato a questa corrida? Peggio ancora, con che faccia si ripresenterà sulla scena politica chi ci ha trascinato in questo psicodramma collettivo, pensando di vincere facile? Un Andreotti redivivo potrebbe commentare: in Italia ci sono due tipi di pazzi, quelli che si credono Napoleone e quelli che propongono riforme costituzionali. Chiunque vinca, sarà per stanchezza, per rassegnazione.

Se vince il «no» magari non cadrà Wall Street, ma si potrebbe persino cominciare a pensare, come ha proposto Valerio Onida, a una serie di riforme puntuali – una per tutte: l’abolizione del Senato – su cui ottenere un consenso dei 2/3 del Parlamento, in modo da evitare accuratamente di sottoporle a nuovi referendum. Perché altri due o tre referendum come questo e faremmo la fine di Bisanzio, quella delle discussioni sul sesso degli angeli.

Più interessante è chiedersi cosa potrebbe succedere se vince il «sì». Non occorre essere Philip Dick per immaginarlo: sarà come il passaggio da un incubo all’altro. I giovani costituzionalisti che si sono portati avanti con il lavoro, producendo commentari alla nuova Costituzione, li lanceranno sul mercato sottostante; quelli anziani, invece, si metteranno in pensione. I politici si aggireranno per i banchi del Parlamento con decine di leggi e di regolamenti da approvare.

E tutti, guardandosi allo specchio, si accorgeranno di aver perso la faccia.