Come stanno gli italiani? La risposta non può che essere molto preoccupata. Apparentemente il Paese tiene; va avanti; assorbe in silenzio recessioni e aumenti del carico fiscale. Ma ci sono scricchiolii evidenti. Cresce a ogni latitudine il numero di casi di piccoli imprenditori o di lavoratori che si tolgono la vita, per problemi con le banche, difficoltà aziendali, mancanza di lavoro. Un indicatore terribile.

Si dirà: ma che si può fare, se non stringere la cinghia e sperare che con fine d’anno ci sia qualche segnale di ripresa? Anzi, guardiamo i segnali positivi. Il duo Berlusconi-Tremonti, in questo periodo astutamente sottrattosi all’attenzione mediatica (si fa presto a dimenticare…), aveva portato il Paese sull’orlo del disastro, della crisi alla greca. È arrivato Monti e lo spread è sceso, è cresciuta la fiducia internazionale; un intervento molto duro, ma non irragionevole nella sua direzione, sulle pensioni; qualche tentativo di liberalizzare attività regolamentate; un aumento sensibile del carico fiscale; la lotta all’evasione. Non si può che continuare così, qual è l’alternativa?

Qualche timore che gli scricchiolii si possano fare più forti affiora; il dubbio che qualche scelta alternativa ci sia va considerato. Il punto è che la crisi è lunga (il Centro studi Confindustria ci dice che è ormai peggiore di quella di fine anni Venti) e i suoi effetti si sommano nel tempo. Le famiglie resistono, ma i piccoli patrimoni si consumano; le reti di protezione familiare si lacerano. La verità è che non sappiamo come stanno gli italiani, che cosa sta veramente succedendo. Ma il timore che sotto l’apparente tranquillità possano esplodere drammi e tensioni non può essere semplicemente ignorato.

Lasciano perplessi gli ultimi passi del governo. Ambire a riformare mercato del lavoro e ammortizzatori sociali è positivo. Molti degli indirizzi appaiono giusti, a cominciare da un maggiore universalismo delle prestazioni e dal tentativo di contrastare l’abuso di precarietà. Delle regole per uscire dal lavoro (l’articolo 18), come di ogni altra cosa, si può parlare: non possono esistere tabù. Ma il governo si è impuntato su una posizione non condivisa; non propone un grande scambio alle forze sociali (e politiche). Chiede alla società che aumenti l’insicurezza di chi lavora, offrendo ben poco in cambio. Beate certezze di chi pensa che toccando l’articolo 18 si moltiplicheranno magicamente le assunzioni… Lascia molto perplessi la possibile valutazione che per l’immagine dell’Italia sia meglio un governo decisionista, accada quel che accada; anche a costo di una stagione di tensioni sociali (il sindacato, in fondo, fa il suo mestiere) che, in questo momento, è proprio ciò che non ci vuole.

Tutta la pressione sembra moltiplicarsi sulle fasce più deboli del Paese. Ma i temi del contrasto alla povertà, della riduzione delle disuguaglianze, delle politiche sociali e di accompagnamento alla crisi sono fuori dagli interessi e dal dibattito. Non ci sono soldi? Il punto principale è che redistribuzione e Welfare sembrano parolacce, in un Paese imbevuto da sottoculture (con toni a volte da osteria, specie sui giornali più importanti) secondo cui la soluzione è semplice: meno Stato c’è e meno fa, meglio è per tutti. Facile, no?

Gli italiani sembrano assorbire tutto. Ma la forza delle manifestazioni spagnole dovrebbe ammonire. Continuare a concentrare su chi “ha già dato” i costi di una crisi per larga parte dovuta alle follie finanziarie, nella vergognosa (e ottusamente egoistica nel caso di Angela Merkel) ignavia dei leader europei, significa scherzare col fuoco. Il Paese tiene, per fortuna; sta attraversando il deserto. Ma ogni traversata del deserto è più difficile se non si vede la meta; e questa non può che indicarla l’Europa. Certamente non si raggiunge solo facendo sacrifici; e se la meta non si vede mai la fiducia si consuma. Ed è più difficile se l’acqua non viene distribuita equanimemente; se non si aiuta chi nel gruppo ha più bisogno: si rischia di arrivare con un Paese irreparabilmente sfilacciato.