L’industria manifatturiera mantiene nelle economie avanzate, prevalentemente orientate alla produzione di servizi, un ruolo centrale, caratterizzandosi per più elevati tassi di crescita della produttività e maggiori capacità innovative rispetto agli altri comparti. È, quindi, opportuno monitorare la situazione dell’industria italiana, anche perché le valutazioni tendono a divergere sensibilmente.
Come sta la cosiddetta trasformazione industriale dell’Italia? È, come affermano alcuni, un calabrone che sorprendentemente riesce a volare sui mercati internazionali o, come ritengono altri, una struttura frammentata e poco innovativa, epicentro del processo di declino del Paese? Sembra che non ci sia via di mezzo tra valutazioni opposte. In realtà sono fuorvianti tutte le visioni apodittiche, che vanno dal caricaturale (imprenditori che non sanno fare il loro mestiere, causa di declino) al muscolare (imprenditori vincenti nell’arena globale a dispetto di tutto, versione eroica della teoria del calabrone).
Restando nel campo delle metafore, l’immagine che sembra più adatta a descrivere la manifattura è quella di un organismo vivo, esposto alle sollecitazioni esterne provenienti sia dalla competizione internazionale sia dal ciclo economico. È reattivo a tali spinte e, quindi, mutevole. Ciò che conta è come si muovono le singole cellule che lo compongono, cioè le imprese. Queste non sono entità uniformi, l’una uguale all’altra, ma differiscono, anche all’interno della medesima attività (sia essa meccanica, tessile o altro), per livelli di efficienza e capacità del management. Come in tutti i Paesi, le migliori sono in minoranza, ma trainano l’intero settore. Gli impulsi selettivi tendono, di norma, ad aumentarne l’importanza.
La manifattura che si osserva oggi è il frutto della reazione ai molteplici shock succedutisi negli ultimi 25 anni: dall’ingresso della Cina nei traffici mondiali alla pandemia e successivo shock energetico, passando per eventi traumatici come l’adozione dell’euro (e connessa fine dell’era delle svalutazioni) e le due forti recessioni che hanno investito l’Italia con la crisi finanziaria e quella dei debiti sovrani. Il più evidente risultato di tale reazione è leggibile nella dinamica della produttività (volume di produzione ottenibile, in media, con una unità lavoro) in rapporto ai competitori europei tecnologicamente più simili al nostro Paese: Germania e Francia. Dopo un lungo periodo di arretramento relativo, più o meno dal 2007 l’efficienza dell’industria italiana ha preso a viaggiare a ritmi analoghi a quelli tedeschi e francesi.
Dopo un lungo periodo di arretramento relativo, più o meno dal 2007 l’efficienza dell’industria italiana ha preso a viaggiare a ritmi analoghi a quelli tedeschi e francesi
Vi è stato dunque un aggiustamento, dopo la non breve fase di difficoltà che ha interessato all’incirca il primo decennio dell’euro. Esso si è accompagnato a una certa stabilità del pattern di specializzazione, ossia dell’insieme di produzioni che l’industria italiana “sa fare” relativamente meglio (e, all’opposto, relativamente peggio) dei partner europei. Una simile (apparente) staticità può essere scambiata per inerzia a fronte delle spinte globali. In realtà, la composizione settoriale dell’industria è mutata relativamente poco in rapporto ai partner europei non per resistenza al cambiamento, ma perché quella struttura riflette oggettivi vantaggi comparati tecnologici negli storici presidi produttivi del Paese, cioè meccanica strumentale, alcuni comparti tradizionali e, sempre più con lo sviluppo delle catene globali d’offerta, beni intermedi specializzati. Il modello di specializzazione della nostra manifattura non può essere, quindi, considerato “sbagliato”, come si sente talvolta dire, in quanto esso è il risultato delle effettive capacità di produrre meglio degli altri in quelle attività. Una configurazione di “vantaggi” e “svantaggi” che si è plasmata negli anni della globalizzazione e della moneta unica.
Nel corso dell’aggiustamento, la struttura della manifattura ha mostrato un ridimensionamento del numero delle imprese più piccole. Il processo è stato parziale, ma ben visibile. Tra il 2008 e il 2022 l’Italia ha perso oltre 110 mila imprese manifatturiere, principalmente per effetto di una congiuntura economica negativa (forti recessioni e deboli riprese prima dell’accelerazione post-pandemia), amplificata da politiche macroeconomiche pro-cicliche (austerità fiscale). Il 95% della contrazione ha coinvolto imprese “micro” (sotto i 10 addetti) e piccole (10-19 addetti), con conseguente riduzione del peso di tali unità produttive.
La perdita complessiva di imprese (-24% in 14 anni) è stata senza pari nella manifattura europea, con l’esclusione della Grecia. La capacità produttiva della nostra industria si è dunque contratta come numero degli attori, conservando tuttavia una base rilevante (le imprese italiane restano più numerose di quelle tedesche) e rafforzata sotto il profilo produttivo e finanziario. Il ridimensionamento si è accompagnato a un rimescolamento nella popolazione dei produttori: si sono relativamente contratte le imprese meno efficienti ed espanse quelle più produttive. Il movimento delle risorse è dunque stato nel senso di una più efficiente allocazione dei lavoratori. Analogamente il cambiamento demografico (morti/nascite) è andato nella stessa direzione, con l’ingresso di unità più produttive di quelle uscite, anche se in numero inferiore.
Nel 2022, le imprese manifatturiere esportatrici erano circa il 23% del totale (meno del 20 nel 2008), una percentuale superiore a quella riscontrabile nei maggiori Paesi europei
Cartina di tornasole di tali rivolgimenti è costituita dalla crescita della proporzione degli esportatori, ossia delle imprese che si caratterizzano per livelli di produttività più elevati rispetto a quelle rivolte solamente al mercato interno. Nel 2022, le imprese manifatturiere esportatrici erano circa il 23% del totale (meno del 20 nel 2008), una percentuale superiore a quella riscontrabile nei maggiori Paesi europei, a eccezione della Germania. Accanto all’aumento dell’incidenza degli esportatori si è verificato anche un sensibile innalzamento dell’intensità media di esportazione di tali produttori. L’export per impresa è infatti cresciuto del 65% tra il 2008 e il 2022. Maggiore incidenza degli esportatori e balzo dell’intensità di vendita sui mercati esteri hanno sospinto la propensione a esportare dell’intero settore. Queste dinamiche hanno avuto un riscontro nella performance internazionale, col miglioramento della posizione delle nostre merci nei mercati mondiali, soprattutto in quelli specificamente rilevanti per l’Italia. Un miglioramento competitivo confermato dalle dinamiche opposte sperimentate nello stesso periodo da Germania e Francia.
In definitiva, la manifattura italiana non si trova in un sentiero declinante né è protagonista di un miracolo. Le cellule-imprese sono diminuite, restando tuttavia numerose. Nell’insieme, l’organismo si è rafforzato al prezzo di una dolorosa contrazione: meno imprese, ma in media più produttive. La migliore performance dell’export sui mercati mondiali è il riscontro di quanto avvenuto. Tutto ciò riguarda le dinamiche del passato. In prospettiva si addensano incertezze per i cambiamenti di natura tecnologica e geopolitica che le imprese devono affrontare, necessariamente anche col sostegno delle politiche pubbliche. I risultati produttivi conseguiti costituiscono una buona base di partenza, è sul versante dell’adeguatezza delle politiche che si stagliano i maggiori interrogativi.
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