Con l’attenzione dei media tutta concentrata sulle trattative che il Movimento 5 Stelle sta conducendo con Lega per la formazione del governo nazionale, sono passati inosservati, o quasi, due episodi locali che hanno interessato il partito guidato da Luigi Di Maio. I fatti riguardano le città di Vicenza e Siena, che andranno al voto il prossimo 10 giugno per rinnovare il consiglio comunale ed eleggere il sindaco. In entrambi i casi il vertice nazionale del M5S ha negato l’autorizzazione a utilizzare il simbolo alle elezioni comunali; dunque, gli elettori non troveranno sulle schede alcun candidato pentastellato. A Vicenza il candidato sindaco era Francesco Di Bartolo, avvocato 62enne, a Siena Luca Furiozzi, architetto 56enne; entrambi selezionati con il voto dell’assemblea locale degli attivisti. In entrambi i casi la decisione è stata unilaterale e non è stata spiegata pubblicamente. Sono due vicende locali, ma, come altre volte in passato, possono aiutarci a comprendere il funzionamento interno del M5S e sulle sue linee di comando anche in termini più generali.

Siena e Vicenza sono gli ultimi episodi di una lista già lunga di casi in cui le tensioni fra il livello locale e quello nazionale sono state evidenti. Nel 2014 il M5S non aveva presentato il proprio simbolo alle elezioni regionali in Sardegna. Stessa cosa a Varese e Rimini nel 2016. A Genova nel 2017 la candidata sindaco selezionata con il voto online, Marika Cassimatis, era stata estromessa per decisione unilaterale di Beppe Grillo. E anche nel 2018, oltre Vicenza e Siena, si sono verificati casi simili a Campi Bisenzio, comune di quasi 50.000 abitanti alle porte di Firenze, e a Spoleto, dove il M5S era stato primo partito il 4 marzo.

Qual è, se esiste, la ratio di queste esclusioni? Per dare una risposta che vada oltre le vicende strettamente locali, bisogna capire come funziona l’organizzazione del M5S. Intanto, il M5S non è, né è mai stato, un’organizzazione gerarchica, in cui i livelli territoriali inferiori sono nominati e prendono ordini dai livelli superiori. I gruppi locali di questo partito nascono come strutture informali, sollecitate nel luglio 2005 dalla “chiamata alle armi” di Beppe Grillo tramite il blog, che invita i suoi seguaci ad incontrarsi e organizzarsi nelle città tramite la piattaforma meetup.com. Anche nel 2009, quando il M5S nasce formalmente e si dota di una prima labile struttura organizzativa (il non-statuto), non si fa riferimento alle organizzazioni territoriali. Due regole però sono chiaramente individuate: 1) Beppe Grillo è proprietario del simbolo e ne autorizza l’uso nelle competizioni elettorali nazionali e locali; 2) il processo di candidatura e di autorizzazione all’uso del simbolo avviene tramite il blog beppegrillo.it. Il profilo organizzativo del Movimento si è evoluto nel tempo, ma questi caratteri originali sono ancora ben presenti. E dunque, ancora oggi, non esiste alcuna organizzazione formalmente riconosciuta a livello locale. I candidati alle varie posizioni elettive lo sono a titolo personale. Inoltre, la piattaforma Rousseau, erede del blog beppegrillo.it, è il “luogo” in cui vengono prese e comunicate le decisioni, inclusa quella sull’autorizzazione all’uso del simbolo. La proprietà del contrassegno invece è trasferita all’Associazione Movimento 5 Stelle, allineando in questo il M5S alla prassi degli altri partiti.

Sono questi i punti fondamentali per capire cosa è successo a Siena, a Vicenza e negli altri casi richiamati sopra e, più in generale, per capire le fondamenta organizzative della democrazia interna del M5S. Il primo punto descrive un’organizzazione verticistica e atomizzata, a dispetto di una retorica insistente sulla democrazia diretta, sulla trasparenza, sulla partecipazione. Al di sotto dei vertici nazionali, il Capo Politico Luigi Di Maio e il Garante Beppe Grillo, ci sono solo individui. Le comunità locali di attivisti, che portano avanti le campagne politiche del Movimento e si candidano nelle competizioni elettorali locali, non pesano all’interno del M5S in quanto organizzazioni territoriali. Se c’è dissidio fra il livello nazionale e quello locale, è dissidio fra il vertice nazionale e singoli individui. Questa è stata un’intuizione decisiva da parte dei fondatori del M5S per evitare il formarsi di correnti e fazioni, che spesso avvelenano la vita dei partiti nelle fasi iniziali e ne impediscono il consolidamento. E ancora oggi serve bene l’obiettivo di evitare che gruppi locali troppo influenti e autonomi possano insidiare il vertice nazionale suggerendo linee politiche alternative. Non è un caso che gli unici episodi realmente problematici da questo punto di vista siano stati rappresentati da sindaci che, grazie alla loro carica monocratica e alla loro legittimazione personale, hanno acquisito in quanto individui un potere politico e una visibilità non irrilevante all’interno del Movimento. Pizzarotti docet.

Il secondo punto rimanda alla centralità della piattaforma Rousseau, l’infrastruttura informatica che per conto del M5S custodisce gli elenchi degli iscritti, gestisce le procedure decisionali e la comunicazione. E la piattaforma Rousseau non è di proprietà dell’Associazione Movimento 5 Stelle. C’è un’Associazione Movimento 5 Stelle, che è formata dagli iscritti ed ha al vertice il Capo Politico e il Garante, e c’è un’Associazione Rousseau (che condivide con la Casaleggio Associati la sede legale ed è controllata da Davide Casaleggio), che gestisce la piattaforma informatica e che, particolare non irrilevante, incamera ogni mese 300 euro da ciascun parlamentare: più di un milione di euro l’anno. Di fatto una società formalmente esterna al Movimento ne controlla la gestione operativa, a partire dall’autorizzazione all’uso del simbolo nelle elezioni locali. Possiamo dire allora che è l’Associazione Rousseau la reale proprietaria del Movimento? Non esattamente. Senza l’Associazione Rousseau il M5S non esisterebbe. Ma è vero anche il contrario, senza la “linfa” dell’Associazione Movimento 5 Stelle, dagli iscritti al vertice, Rousseau sarebbe una scatola vuota. L’organizzazione di questo strano partito si regge piuttosto sulla simbiosi fra le sue due componenti, sancita persino nell’articolo 1 dello statuto.

Viste in questa luce, le vicende di Siena e Vicenza, appaiono più comprensibili. Le realtà locali del M5S hanno autonomia operativa totale, non sono gestite né sottoposte gerarchicamente al vertice nazionale. Ma solo finché non entrano in rotta di collisione con quest’ultimo. A quel punto, senza bisogno di alcuna spiegazione, le realtà locali smettono semplicemente di esistere, perché, formalmente, non sono mai esistite. E quando entrano in rotta di collisione con il vertice nazionale? Quando quest’ultimo decide così, a suo insindacabile giudizio. Dove c’è ombra di dissenso, il Capo Politico ha poteri illimitati nei confronti dei candidati locali e i questi ultimi non hanno alcun mezzo per opporsi alle sue decisioni. Concedere o meno ai candidati sindaci l’uso del contrassegno alle elezioni spetta al Capo Politico, ma la procedura è gestita (deve essere gestita, in base allo statuto) concretamente dall’Associazione Rousseau tramite la piattaforma informatica. E dunque, di fatto, ogni decisione è una co-decisione Di Maio-Casaleggio.

Siena e Vicenza rimarranno due punture di spillo, pressoché invisibili all’opinione pubblica, ad eccezione dei diretti interessati. Ma sono episodi come questi che, opportunamente inquadrati, permettono di illuminare il funzionamento della macchina organizzativa del primo partito italiano. Non certo un caso unico di partito dalla democrazia interna opaca o assente. Un caso, tuttavia, che rimane sorprendente per la distanza che separa il reale funzionamento dell’organizzazione dalla retorica della “democrazia diretta” e della trasparenza. Il tutto nell’apparente indifferenza dei suoi stessi elettori e attivisti.

 

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