A Taranto torna indietro l’orologio della storia, proprio quando le lancette sembravano marciare in avanti verso la soluzione del dilemma salute-lavoro. Arcelor Mittal, alla guida dello stabilimento siderurgico da meno di un anno, ha promesso una svolta con abbondanti “maquillage” mediatici. Prima il nuovo nome: via l’ormai “sinistro” marchio Ilva, è nata “Acciaitalia”. Poi, quasi un crisma al “cambio di passo” nei rapporti città-fabbrica, il doppio annuncio in vista delle vacanze di Natale 2018. Arcelor Mittal sosteneva l’Amministrazione comunale tarantina contribuendo alla spesa per le luminarie cittadine e garantendo l’accesso gratuito dei bambini fino a 6 anni alla pista di pattinaggio sul ghiaccio aperta nel centro città. In una nota, la multinazionale franco-indiana spiegava di voler trascorrere il suo primo Natale “simbolicamente insieme a tutta la comunità di Taranto”, per diventarne “parte integrante, guardando al futuro”. Quale se si rischia di tornare al passato? Mentre si celebra il processo in corte d’Assise per il disastro ambientale targato Riva e l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, imputato, durante l’esame in aula, definisce Taranto “città inquinata da un certo disincanto e da una certa disperazione”, la politica torna nel mirino delle proteste. Monta la rabbia dei cittadini contro le istituzioni di ogni colore: dai parlamentari del Movimento 5 Stelle, rei di aver promesso invano la chiusura della fabbrica, al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano contestato alla marcia organizzata dall’associazione “Genitori Tarantini” in ricordo dei bambini morti di tumore. Pochi giorni fa, gli ecologisti di Peacelink hanno ripreso i dati registrati tra gennaio e febbraio dalle centraline di monitoraggio dell’Arpa, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale.

Il rilevamento, a ridosso delle cokerie di Acciaitalia, dove avviene l’assai inquinante “distillazione” del carbon fossile, ha confermato timori mai sopiti. È bastato aumentare la produzione passando da 12 mila e 500 tonnellate giornaliere di lamiere e tubi a 14 mila e 500 (con l’obiettivo di un incremento annuo da 4,8 a 6 milioni di tonnellate d’acciaio) per registrare valori di sostanze inquinanti di gran lunga più elevati rispetto a un anno fa. Così non è difficile spiegare il 191% in più di Ipa, i pericolosissimi idrocarburi policiclici aromatici, il più 160% di benzene, il più 111% di idrogeno solforato; schizzate anche le polveri sottili nell’aria (pm 10, pm 2,5; tra il 18 e il 29%). Arcelor Mittal si è difesa ribadendo il rispetto dell’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale [la “patente” di compatibilità ecologica degli impianti rilasciata dal governo, N.d.R.]”. Ma chi conosce bene lo stabilimento siderurgico, costruito alla fine degli anni Cinquanta e raddoppiato agli inizi degli anni Settanta, ha più volte messo in guardia da facili entusiasmi. La grandezza, complessità e obsolescenza degli impianti, la difficoltà estrema di raggiungere in modo rapido e senza investimenti colossali l’effettiva compatibilità ambientale del ciclo di produzione integrale, avrebbero, primo o poi, fatto riesplodere l’emergenza. I governi succedutisi dal 2012 a oggi si sono illusi di mitigarla abbassando progressivamente – nei tempi e nella ampiezza – l’asticella degli interventi relativi all’Autorizzazione Integrata Ambientale. Ora Arcelor Mittal si illude di governarla. E rimane la “spina” dell’immunità penale riconosciuta per decreto legge, nel 2015, prima ai commissari governativi e ora al nuovo proprietario dello stabilimento. La magistratura tarantina ha di recente sollevato la questione di legittimità costituzionale del decreto davanti alla Consulta. Sulla controversia pesano sia l’orientamento della Commissione europea (in risposta alle domande poste dalla Regione Puglia) sia la recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo. La prima ha dichiarato Arcelor Mittal comunque responsabile di eventuali danni a terzi o all’ambiente provocati dall’utilizzo degli impianti e del rispetto dei requisiti dichiarati nell’Autorizzazione Integrata Ambientale. La seconda, accogliendo i ricorsi di 180 cittadini di Taranto, ha stabilito che il “persistente inquinamento” rappresenta, da parte dell’Italia, una violazione dei diritti umani al rispetto della vita e al rimedio efficace, invitando il Paese a un immediato ripristino. Arcelor Mittal, intanto, beneficia della combinazione di un’Aia più “benigna” e diluita nel tempo: sono stati, infatti, concessi altri quattro anni (fino al 2023) per concludere i lavori. Senza, però, una effettiva e onerosa ristrutturazione dello stabilimento, la svolta sarà impossibile. Il punto critico rimane sempre lo stesso. La procura della Repubblica di Taranto stimò in otto miliardi di euro la somma necessaria al risanamento. Arcelor Mittal ne spenderà uno. “Ballano” sette miliardi e così è tornato ad acuirsi lo scontro frontale città-fabbrica. Gli ambientalisti raccolgono firme per presentare un nuovo esposto alla procura; il sito di informazione indipendente Veraleaks ha rilanciato le foto di un sindacalista Usb sulle condizioni disastrose in cui versano gli elettrofiltri, indispensabili a catturare le polveri di diossina emesse dal camino E 312. La foto è finita sul tavolo della magistratura. Un altro miliardo a disposizione dell’Ilva in amministrazione straordinaria, rimasta sotto gestione commissariale dello Stato, servirà alle bonifiche delle aree non interessate alla produzione. Di queste si occuperanno solo 300 dei 2 mila e 600 esuberi dichiarati dalla multinazionale franco-indiana, ora in cassa integrazione. In fabbrica sono rimasti 8 mila e 200 lavoratori dei 15 mila di quattro anni fa. La sensazione è che, in tempi medi, Arcelor Mittal possa essere tentata da una riduzione drastica di produzione e occupazione risolvendo così l’emergenza ambientale. Uno stabilimento sul modello di quello belga di Gand (4 mila e 700 dipendenti per 5 milioni circa di tonnellate d’acciaio annue). Ma altri 4 mila esuberi quali contraccolpi produrrebbero a Taranto?

Il cartello col nuovo logo, “Acciaitalia”, issato in cima alla direzione, prometteva “magnifiche sorti e progressive”. Ai franco-indiani è bastato snocciolare numeri per sbandierare il “cambiamento”. Ad esempio quelli del progetto ideato dall’azienda Cimolai e destinato a coprire gli sterminati parchi minerali e azzerare il micidiale spolverio di carbone e ferro sul vicino quartiere Tamburi: due strutture alte 80 metri, larghe 254, lunghe 700 per un peso complessivo di circa 60 mila tonnellate. L’opera dovrebbe essere ultimata il prossimo anno. Tra i 12 decreti governativi definiti “salva-Ilva”, c’è quello del 2015 in cui si definisce la necessità di intervenire quando il vento da nord solleva le polveri investendo il rione più vicino alla fabbrica. Dall’inizio dell’anno scolastico, i cosiddetti “wind-days” in cui l’Arpa segnala il probabile spolverio e il Comune emette l’ordinanza con le precauzioni da osservare sono stati 22. I genitori, in queste giornate, evitano di portare a scuola i bambini. Così, agli studenti del quartiere Tamburi di Taranto, Italia, manca quasi un mese di attività didattica. Giorni e giorni durante i quali l’inquinamento e la paura hanno negato loro, di fatto, il diritto allo studio. Un mese completato dalla chiusura di due scuole fino a fine marzo disposta dal Comune dopo il sequestro di tre “collinette ecologiche”, area di nove ettari di proprietà Arcelor Mittal dentro il quartiere. I carabinieri del Noe hanno proceduto dopo gli accertamenti dell’Arpa disposti dall’autorità giudiziaria. Dalle analisi è emerso un dato inquietante: le “collinette” sono state realizzate “con svariate tonnellate di rifiuti industriali” dell’ex Italsider si legge nell’ordinanza del Comune che ricorda come l’Arpa abbia osservato “superamenti di concentrazione di alcuni contaminanti (metalli in particolare)”. Arcelor Mittal, nel giorno della manifestazione dedicata alle piccole vittime dell’inquinamento, ha ammainato le bandiere a mezz’asta davanti allo stabilimento siderurgico, in segno di solidarietà per il lutto cittadino. Un numeroso gruppo di abitanti del quartiere Tamburi ha marciato pochi giorni fa fino alla direzione della fabbrica issando un altro cartello, molto eloquente, che certo non faceva pendant con la nuova insegna di “Acciaitalia”: “Oggi vi chiudiamo noi”. I cittadini hanno poi simbolicamente serrato il cancello con una catena e un lucchetto. L’illusione di un cambiamento, nata nella breve stagione del sequestro giudiziario, è tramontata. E l’orologio della storia sembra tornare indietro rischiando di battere nuovamente, per Taranto e il siderurgico, l’ora più buia.