Nella Chiesa cattolica il Sinodo dei vescovi è un organismo voluto nel 1965 da Paolo VI per l’esercizio della collegialità episcopale, la dottrina che esplicita il legame dei vescovi tra loro e con il papa, in assemblee celebrate a Roma a scadenza regolare, ogni due-tre anni. Negli anni esso ha certamente costituito un luogo di scambio, ma è pacifico che non abbia mai raggiunto un profilo soddisfacente né giuridicamente né teologicamente.

Il suo impatto è risultato debole per ragioni sia intrinseche sia estrinseche. Tra le prime, c’è il ruolo subordinato che Paolo VI gli attribuì come strumento ausiliario del papa per il governo della Chiesa universale, animato da intenzioni genuinamente pastorali più che direttamente istituzionali e dottrinali. Ma c’è anche l’uso improprio del concetto di Sinodo, che in realtà non può mai riguardare una componente ecclesiale «sola» (come i vescovi) ma sempre e soltanto la Chiesa tutta, a maggior ragione dopo la crisi del sistema rappresentativo che colpisce anche le istituzioni cattoliche (in effetti, i vescovi rappresentano la Chiesa). Tra le ragioni estrinseche compaiono, invece, delle storiche resistenze della Curia romana e le linee di indirizzo dei pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, sotto i quali il Sinodo dei vescovi assunse un ruolo figurativo e confermativo, oltre che accademico. Una configurazione molto diversa da quella che ha assunto con papa Francesco. Parlare di Sinodo dei vescovi implica un uso improprio del concetto di Sinodo, che in realtà non può mai riguardare una componente ecclesiale sola (come i vescovi), ma sempre e soltanto la Chiesa tuttaBergoglio, infatti, riferendosi al dialogo ecumenico ha subito affermato che su collegialità e sinodalità «noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più» (Evangelii gaudium 246) e ha successivamente reso il primo Sinodo del suo pontificato (quello in due tappe sulla famiglia e il matrimonio del 2014-2015) un’occasione di confronto reale e non più solo affettivo, in cui la Chiesa è cambiata alla luce di una comprensione più matura delle sue pratiche. Ma occasioni di confronto reale sono stati anche i sinodi seguenti, quello sui giovani nel 2018 e quello sulla regione amazzonica nel 2019, le cui conclusioni dei membri sinodali si sono tuttavia rivelate più innovatrici delle due esortazioni apostoliche con cui il papa ha recepito i lavori d’aula. Ugualmente connesso a questo pontificato, inoltre, è il documento intitolato La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, che la Commissione teologica internazionale ha pubblicato nel 2018. In esso si delinea una teoria-pratica della sinodalità unendo il ricorso alle fonti ad alcune intuizioni del pontificato. È un testo equilibrato e rappresenta un punto di partenza più che un punto di arrivo. Dello stesso anno, d’altronde, è anche l'Episcopalis communio, la costituzione apostolica con cui Francesco ha riformato il Sinodo dei vescovi agendo sulla sua preparazione, possibile a più sessioni e livelli; sulla consultazione dei fedeli, già in uso, ma ora obbligatoria; infine, sulle proposte conclusive del Sinodo, che il papa può approvare anche senza un’esortazione apostolica incorporando al proprio magistero il documento finale dell’assemblea.

Ma tutto questo è destinato ad assumere una luce nuova a partire dal 21 maggio scorso: quando la Segreteria generale del Sinodo dei vescovi ha diffuso una nota che ha annunciato lo slittamento della prossima assemblea sinodale dal 2022 al 2023 e le modalità con cui si giungerà alla celebrazione della stessa, che discuterà del tema Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione.

Dal comunicato, si apprende che il Sinodo si articolerà in tre fasi, dopo l’apertura che avverrà in Vaticano e in ogni Chiesa locale a ottobre 2021: «una fase diocesana», durante la quale avrà luogo la consultazione di parrocchie, movimenti, ordini religiosi e università, i cui contributi giungeranno alla Segreteria generale del Sinodo; «una fase continentale», che vedrà protagoniste le conferenze episcopali, le quali discuteranno un Instrumentum laboris elaborato dalla Segreteria del Sinodo in Vaticano e redigeranno un documento finale; «una fase di Chiesa universale», che coinciderà con la celebrazione dell’evento sinodale a Roma e sarà accompagnata da un secondo Instrumentum laboris.

Non sono novità di poco conto. Infatti, sebbene non si tratti che dell’applicazione di Episcopalis communio, scaturiscono questioni diverse. Anzitutto quale rapporto ci sia tra questo Sinodo e un Concilio (come il Concilio Vaticano II, 1962-1965), dato anche che i due termini sono in realtà sinonimi e che è solo con il tempo che si è giunti a una distinzione delle adunanze ecclesiali sulla base del soggetto che le convoca, dei temi, dei membri e dei territori coinvolti. Ci si può perfino chiedere se con la riforma del Sinodo dei vescovi non sia effettivamente cominciata, per la Chiesa, una fase post-conciliare nel senso di una Chiesa che riconosce tanto le difficoltà oggettive che deriverebbero dalla convocazione di un Concilio generale oggi (i vescovi sono circa 5000, più del doppio dei presenti al Vaticano II), quanto l’occasione di iniziare a pensare forme di rappresentanza diverse (non esauribili dall’episcopato). Ma anche se non sia troppo sbrigativo parlare di Sinodo come processo piuttosto che come evento, non perché si contraddicano ma perché, se si segue Hannah Arendt, «l’evento illumina il passato ma non si deduce da esso», allora l’evento spiega il processo. Il che è molto più significativo per la Chiesa, che dopo quasi sessant’anni non ha ancora una recezione univoca del Vaticano II come evento. Ci si può chiedere se con la riforma del Sinodo dei vescovi non sia cominciata, per la Chiesa, una fase post-conciliare, nel senso di una Chiesa che riconosce le difficoltà legate alla convocazione di un concilio generale oggi e il bisogno di forme di rappresentanza diverseDa chiarire, inoltre, è il rapporto tra i Sinodi nazionali avviati o in corso di avvio in diversi Paesi, tra cui l’Italia (il 27 maggio si è chiusa l’Assemblea generale della Cei che, pur confermando l’avvio del Sinodo, ha ammesso che si dovrà tenere conto delle novità previste dalla nota della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi). Delle domande si impongono da sé in merito a cosa ne sarà di essi, data l’impossibilità di stabilire ora se il processo sinodale avviato dalla Segreteria generale costituirà la loro neutralizzazione o incorporazione, soprattutto in casi discussi come il Sinodo della Chiesa tedesca. Ma c’è il verso della medaglia: il processo sinodale 2021-2023 è anche un impulso al superamento sia di un certo torpore di talune Chiese locali (come in Italia) che dell’accantonamento delle profonde divisioni interne (come negli Stati Uniti).

In questo senso, il processo sinodale conferma il bisogno di riforme strutturali nella Chiesa. Il fatto che esso debba discutere di sinodalità non è solo «tautologico» (si potrebbe obiettare, infatti, che ogni Sinodo mette a tema la sinodalità), ma anche e in prima battuta «politico», dando un’idea di cosa realmente debba importare alla Chiesa: la ricerca seria e appassionata di una socialità condivisibile oggi.

A questo, non a caso, è dedicata l’ultima enciclica di Francesco, Fratelli tutti: il programma strutturale per una Chiesa che sa che non si esiste senza gli altri. Questo processo sinodale ci dirà quale grado di consapevolezza avrà raggiunto.