L’esito grigio e deludente dei – pomposamente chiamati – “Stati generali” del Movimento 5 Stelle induce molti osservatori a intonare il requiem per questa formazione politica e i partiti a porsi il problema della spartizione della sua eredità elettorale. Ma vogliamo qui porre il problema della sua eredità politica. Il Movimento 5 Stelle non è un qualcosa che è nato una mattina d’autunno nella mente febbricitante di un comico arruffapopolo. Un partito che prende il 25% dei voti la prima volta che si presenta alle urne nazionali e che poi lo conferma con addirittura il 33% cinque anni dopo non è un fenomeno transeunte, un “partito meteora”. Né un corpo estraneo alla politica italiana. Ma vuol dire che ha toccato corde profonde nell’elettorato.

Elenchiamone alcune. L’ideologia anti-casta fa parte dell’armamentario anti-istituzionale di tutti i populismi, ma corrisponde anche a un tradizionale atteggiamento anti governativo diffusissimo in Italia a livello popolare (“piove governo ladro”). L’ostilità verso il mercato e il favore verso lo statalismo sono elementi tradizionali della cultura di sinistra. Il pauperismo, l’anti industrialismo, il mito della “decrescita felice” e del “piccolo è bello” sono in sintonia con aspetti profondamente radicati nel modo cattolico. Il giustizialismo, nel senso di giustizia rapida e sommaria e il suo sconfinamento nella politica, che si è affermato in Italia da Tangentopoli in poi, ha sempre trovato ampi spazi nel Pci-Pds-Pd e nel mondo cattolico. La tematica ambientalista, che in Italia (a differenza delle altre nazioni europee) non ha mai trovato seri sbocchi politici, è certamente diffusa anche da noi, specie nell’elettorato giovanile. Infine il M5S ha saputo interpretare quel “desiderio insaziabile di eguaglianza” proprio della cultura cattolica e marxista (pensiamo per esempio a quel “abbiamo sconfitto la povertà” dopo l’approvazione del reddito di cittadinanza, che ha suscitato solo sentimenti di compatimento ed irrisione). In sintesi, il Movimento 5 Stelle, pur non facendo riferimento a un’ideologia strutturata, coesa ed articolata (che gli permette di dire “non siamo né di sinistra né di destra”) possiede un’identità forte su temi profondamente radicati nella cultura politica italiana.

Ma soprattutto il M5S ha raccolto (ed anche amplificato, pensiamo al “megafono” Grillo) il malessere dei cittadini e ha dato spazio a quel vento di protesta che da diversi anni soffia sulle democrazie occidentali. Tutti abbiamo di fronte la senescenza dei partiti e l’incapacità delle istituzioni politiche di rispondere alle richieste di nuove forme di democrazia e di rappresentanza. L’erosione della fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni politiche è il grande problema politico del nostro tempo. E le ragioni del discredito delle forze politiche tradizionali sono ancora lì, quasi intatte. 

Dobbiamo riconoscere che il M5S ha cercato di rispondere a questo problema, proponendo strumenti innovativi di partecipazione politica portando avanti la suggestiva utopia della democrazia digitale. La rivoluzione informatica che negli ultimi due decenni ha investito le tecnologie di informazione e di comunicazione non poteva lasciare indenne la politica. Certamente c’è da discutere se la democrazia digitale sia preferibile alla democrazia rappresentativa. Si potrebbero riportare tre obiezioni cruciali: la complessità delle decisioni politiche richiede delle conoscenze che il cittadino comune non ha; non tutti sono disposti a dedicare tempo alla riflessione politica e questo porterebbe alla sezione di una classe di militanti-partecipanti non rappresentativi della popolazione; la partecipazione diretta si esprime tipicamente con un voto (un “sì” o un “no”) che non permette articolazioni delle decisioni.

L’esito non è stato felice. La piattaforma Rousseau si è dimostrata sostanzialmente fallimentare ed è oggi contestata direttamente dall’interno del Movimento. Internet, che era stato uno strumento decisivo nella nascita e nella diffusione sul territorio del M5S nella sua fase iniziale, si trova ora in uno stato di afasia in un quadro generale di debolezza organizzativa. La “democrazia della rete”, nella realizzazione del M5S, ha mostrato tutti i suoi limiti. In primis quello di una enorme opacità, che contraddice clamorosamente l’obiettivo per il quale era nata, quello di una più trasparente ed efficiente partecipazione popolare. Ma va riconosciuto che il M5S è stato il primo (e tuttora l’unico) in Italia (ma non solo) a porsi il problema del rinnovamento radicale delle forme di partecipazione politica e a raccogliere il guanto di sfida che la digitalizzazione ha lanciato alla politica.

Il successo dei populismi è legato al fatto che c'è sempre stata nelle società umane una notevole quota di frustrazione e rabbia contro le élite governanti, che deve essere incanalata politicamente. Nella società italiana del dopoguerra questa funzione di contenimento è stata esercitata dal partito comunista. Ma quando in qualche modo il Pci è andato al potere, nessuno è rimasto a raccogliere il "piove governo ladro". Beppe Grillo ha rappresentato il tentativo più riuscito di farsene interprete, o più precisamente di farsi “imprenditore politico” dei diffusi sentimenti anti-sistema, in un conflitto dove lo schema non era più quello classico dell’opposizione contro il governo, ma quello della rivolta della società contro la politica.

Di Maio ha cercato di istituzionalizzare la spinta quasi-eversiva di Grillo, nel tentativo di trasformare in energia positiva quella che nei comizi di Grillo prima maniera rischiava di trasformarsi in spinta distruttiva (tipo gilets jaunes), fino ad ammainare tutte le bandiere dell’identità del M5S, dall’”uno vale uno” al rifiuto delle alleanze, dal vincolo dei due mandati all’ostracismo anti-europeo… con la conversione ai riti dei congressi e la pratica delle correnti. Ma d’un tratto – come vediamo in questi Stati generali – anche i 5 Stelle rischiano di apparire come parte del vecchio, e nello stesso tempo nessuno dei partiti tradizionali mostra cenni di aver appreso la lezione. Date queste premesse, molto probabilmente il populismo continuerà ad essere vivo e vegeto nella politica italiana. C’è solo da chiedersi chi raccoglierà le bandiere ammainate dal Movimento 5 Stelle.