Per molti anni ho scritto e ho contribuito a dirigere una ri­vista intitolata “Dissent”, la casa politica di scrittori e lettori im­pegnati nel socialismo liberale. Il più delle volte ci chiamavamo socialisti democratici o socialdemocratici, ma l’aggettivo “liberale” dava forma alla nostra politica in vari modi criticamente rilevanti. I fondatori di “Dissent” erano ex trozkisti che si erano sentiti a disagio con il dogmatismo e l’intolleranza della politica settaria. La setta è forse il modello originario di un’organizzazione politica illiberale. I suoi membri rispondono alle sconfitte politiche o alla marginalità di lungo periodo rafforzando le proprie convinzioni e confermando gli uni agli altri l’assoluta giustezza della propria ideologia e la rettitudine del proprio impegno. I primi “Dissentini” optarono per un orizzonte più ampio, una politica più pluralista e un pizzico di scetticismo sul punto d’arrivo della lunga marcia.

Irving Howe, uno dei fondatori, amava raccontare una vecchia barzelletta ebraica sui finali. In uno shtetl dell’Europa dell’Est un uomo era stato scelto per sedersi davanti all’ingresso del villaggio ad aspettare il Messia, in modo che gli abitanti avessero qualche avvisaglia della sua tanto attesa venuta. Un amico gli chiese: “Che tipo di lavoro è il tuo?”. “Non è pagato molto bene”, rispose, “ma è un lavoro fisso.” Il socialismo liberale è un lavoro fisso.

I Dissentini erano indipendenti di sinistra, ostili allo stalinismo in un’epoca in cui molte persone di sinistra continuavano a difendere il regime sovietico, a negare i suoi crimini o a scusarsi per essi in nome della necessità storica e del trionfo futuro della classe operaia. I redattori di “Dissent” erano dissidenti di sinistra che talvolta si ritrovavano in una scomoda alleanza con i guerrieri liberali della Guerra fredda. Quando però alcuni di loro abbracciarono il maccartismo (si potrebbe dire che diven­nero guerrieri neoliberali della Guerra fredda), i Dissentini si schierarono a favore della causa della libertà civile borghese e difesero i diritti di insegnanti, attori e scrittori comunisti. Lo shock dello stalinismo fu la causa più importante del loro impegno liberale. Il maccartismo fornì l’occasione per esprimerlo.

La guerra in Vietnam pose domande difficili ai socialisti liberali di “Dissent”. I fondatori della rivista conoscevano i nomi di tutti i militanti trozkisti e di tutti gli indipendenti di sinistra uccisi dai comunisti vietnamiti. Avevano previsto le crudeltà che si sarebbero poi avverate (e che si avverarono) con la vit­toria dei Vietcong e dei loro sostenitori nordvietnamiti, ed esitavano a unirsi a un movimento contro la guerra il cui successo avrebbe portato con sé una vittoria comunista. Cercavano una terza via, una sinistra non comunista in grado di governare a Saigon, un’opzione politica che sarebbe dovuta esistere ma che non esisteva. Io appartenevo alla seconda generazione di Dissentini; non conoscevo i nomi degli assassinati di sinistra e ben presto arrivai a credere che le crudeltà della guerra americana fossero probabilmente peggiori di quelle che si sarebbero verificate in caso di fallimento della guerra.

Cercavano una terza via, una sinistra non comunista in grado di governare a Saigon, un’opzione politica che sarebbe dovuta esistere ma che non esisteva

Ci fu quindi una divisione tra i direttori e gli autori di “Dissent”. La ritenni una divisione onorevole tra socialisti liberali (e democratici liberali) che si trovavano di fronte a una scelta davvero difficile tra una guerra orrenda e una politica crudele. Benché sostenessi che l’opposizione alla guerra americana dovesse venire prima di tutto il resto, il mio rapporto con quelle persone di sinistra che si opponevano alla guerra perché speravano in una vittoria comunista, e che portavano le bandiere Vietcong a tutte le nostre manifestazioni, era tormentato e discontinuo. Erano di sinistra ma illiberali, troppo sicuri della propria politica, non sufficientemente preoccupati dei finali. A lungo andare, preferii la compagnia dei Dissentini più anziani che ricordavano i nomi dei propri compagni uccisi.

Questa era la mia politica; la ereditai senza aver vissuto le battaglie ideologiche tra stalinisti e trozkisti o senza essermi mai irritato per la ristrettezza del settarismo. L’opposizione alla sinistra illiberale lasciava però ancora molto spazio a un pluralismo di sinistra.

Anni dopo, quando i fondatori non c’erano più, e Mitchell Cohen e io eravamo i condirettori, i Dissentini si divisero ancora una volta su una guerra: l’imminente invasione dell’Iraq nel 2003. Alcuni di noi difesero la guerra in nome dell’interna­zionalismo di sinistra. Il rovesciamento di un brutale regime autoritario giustificava l’uso della forza persino da parte di un Paese con un governo di destra e persino di fronte all’incertezza su ciò che sarebbe seguito al successo militare. Si trattava, in effetti, di una vecchia posizione della sinistra. Così come l’Armata rossa aveva marciato su Varsavia per portare il comunismo in Polonia, ora l’esercito americano marciava su Baghdad per portare la democrazia in Iraq. Alcuni dei neoconservatori che sostenevano la guerra erano ex trozkisti che, forse, agivano a memoria. I Dissentini che si unirono a loro, per un breve perio­do e con disagio, seguirono la guida di Kanan Makiya, un esule iracheno che aveva scritto per la rivista e che sosteneva che la guerra valesse la pena di essere combattuta finché ci fosse stato un 10% di possibilità di creare un Iraq democratico.

La maggior parte di noi invocava la classica dottrina liberale del non intervento enunciata per la prima volta da John Stuart Mill: il rovesciamento di un regime autoritario non può che avvenire a opera dei propri sudditi

La maggior parte di noi, e questa era la mia posizione, invocava la classica dottrina liberale del non intervento enunciata per la prima volta da John Stuart Mill: il rovesciamento di un regime autoritario non può che avvenire a opera dei propri sudditi. I liberali e le persone di sinistra avrebbero potuto aiutare per mezzo di un sostegno politico e morale, e i singoli avrebbero potuto unirsi alla lotta come volontari, ma gli eserciti stranieri dovevano starne fuori, poiché era improbabile che fossero in grado di instaurare e sostenere un governo democratico.

Nei mesi precedenti l’invasione, pubblicammo degli articoli a sostegno e contro la guerra, per i quali fummo duramente criticati da persone che considero socialisti illiberali. Pensavano che fosse il momento giusto per epurare i sostenitori della guerra dalla rivista e per espellerli dal comitato editoriale o, quantomeno, per incoraggiarli a dimettersi. Non lo facemmo. Pensai che la richiesta fosse una risposta rancorosa ai compagni che erano in disaccordo. Rimanemmo uniti nonostante i disaccordi e continuammo a discutere tra di noi dopo la guerra e durante l’occupazione che ne seguì.

Per molti degli oppositori della guerra il caos e lo spargimento di sangue settario conseguenti all’invasione dimostra­vano che avevano ragione loro – il che probabilmente è giusto. Ma continuarono a chiedere l’immediato disimpegno americano dall’Iraq e da ogni altro luogo – il che non è giusto. In un romanzo notevole sul dopoguerra (The Rope, 2016), KananMakiya ha sostenuto (era quel genere di romanzo) che l’invasione americana, rovesciando Saddam Hussein, aveva offerto al popolo iracheno l’opportunità di creare un regime decente, ma i leader sciiti hanno invece preferito la vendetta e il dominio, da cui il caos e le guerre settarie. Questo resoconto riduce, seppure soltanto in parte, le responsabilità americane per quello che era sempre stato un risultato possibile, se non probabile, dell’invasione. Dopodiché, gli Stati Uniti si dimostrarono incapaci di prevenire le guerre – e ben presto vi furono coinvolti – tra iracheni sunniti e sciiti, senza alcuna prospettiva di vittoria.

L’uscita dall’Iraq presentava a sua volta difficoltà, morali e militari. Noi di “Dissent” pubblicammo un libro intitolato Getting Out (2009), alcuni capitoli del quale erano dedicati al disimpegno britannico dalle colonie americane e dall’India, al ritiro francese dall’Algeria, al ritiro americano dalle Filippine e al ritiro israeliano da Gaza. Questi capitoli erano stati pensati per aiutarci a riflettere su un disimpegno americano dall’Iraq. Nel libro sostenevamo che esistono responsabilità derivanti dalla colonizzazione e dall’imperialismo, e dalle guerre, giuste e ingiuste.

Noi socialisti americani avevamo senz’altro un obbligo particolare nel difendere i compagni iracheni, che a loro volta difendevano i diritti umani rischiando molto

In Iraq noi avevamo la responsabilità di proteggere le persone che lavoravano con le forze di occupazione, i nostri collaboratori, e anche gli uomini e le donne che si presentavano come democratici, sindacalisti e femministi, e che erano sotto copertura americana. Con “noi” intendo gli americani, ma noi socialisti americani avevamo senz’altro un obbligo particolare nel difendere i compagni iracheni, che a loro volta difendevano i diritti umani rischiando molto. Tra costoro, alcune femministe si opposero al ritiro delle forze americane nel 2011 che consideravano, data la forza delle milizie sunnite e sciite, quasi una condanna a morte. Noi che cosa avremmo dovuto fare allora (il “noi” con la minuscola)? I socialisti liberali riconobbero la difficoltà. Una richiesta univoca di disimpegno americano ovunque non può essere la risposta giusta.

[Per gentile concessione dell'editore Cortina. © 2023 Raffaello Cortina Editore]