La carica dei cento senatori è un bel segnale. Il progetto iniziale di Matteo Renzi non poteva tenere. Un Senato destinato a essere senza identità, perché sommatoria indistinta di soggetti eterogenei, senza una chiara portata rappresentativa, si avvia ad avere finalmente una forma e un senso. La seconda Camera conterrà in tutto cento senatori, dei quali la stragrande maggioranza sarà espressione delle regioni, una piccola parte dei sindaci, e solo cinque nominati dal presidente della Repubblica. Nonostante rimanga del tutto inutile l’antiquata presenza di “ottimati” indicati dal Colle, aver cambiato nettamente i rapporti di forza tra regioni e comuni, a vantaggio delle prime, serve per dare al nuovo Senato un volto coerente con l’obiettivo della riforma costituzionale voluta dal governo.

Superare il bicameralismo paritario è un’esigenza storica e politica. L’Italia resta un unicum nel costituzionalismo liberaldemocratico, la cui spiegazione era tutta legata alla divisione del mondo in due blocchi, e alla parallela divisione italica tra democristiani e comunisti. Un Parlamento con due Camere identiche è un monstre dal punto di vista del processo decisionale: perché ogni decisione deve scontare il rischio di superare due discussioni estenuanti, magari in consessi privi della medesima maggioranza politica (com’è accaduto, da ultimo, l’indomani delle elezioni del 2013). Ma un Parlamento che rappresenta in due Camere lo stesso elettorato nazionale è un ossimoro dal punto di vista dello Stato regionale: in tutti i Paesi a struttura decentrata, le regioni (non i comuni) sono rappresentate nella seconda Camera, per assicurare il principio di divisione dei poteri anche in senso verticale, ossia tra lo Stato centrale e le autonomie territoriali, come ci hanno insegnato i padri fondatori degli Stati Uniti d’America.

Ecco allora perché l’ultima versione dell’accordo sulla riforma del Senato è un buon segnale: la seconda Camera, anche se non concederà la fiducia al governo, che resta nelle mani della Camera dei deputati, diventa il luogo della rappresentanza nazionale delle regioni. Rovesciare il peso dei sindaci a vantaggio dei senatori eletti dalle regioni, in proporzione al numero degli abitanti, e avere ridotto i sindaci a una minoranza, costituisce il viatico per fare “assomigliare” il nostro Senato al modello tedesco del Bundesrat. In Germania, infatti, sono i Laender a occupare gli scranni del Consiglio federale (senza i comuni): di quest’organo si discute ancora se si tratti di una Camera di rappresentanza; certamente nessuno mette in dubbio che il Bundesrat costituisce un autentico potere politico, un forte contrappeso al potere del Bundestag e del cancelliere, ai quali spetta la definizione dell’indirizzo politico e, quindi, assumere le decisioni che contano. Come nel modello tedesco, anche il nostro Senato potrà intervenire in tutti i procedimenti legislativi: in alcuni casi con i medesimi poteri dell’altra Camera (per modificare la Costituzione, per le questioni europee, per i temi relativi alle autonomie); in tutti gli altri, che sono la maggioranza, solo con funzione di “raffreddamento”, potendo proporre modifiche o suggerimenti, l’ultima parola spettando alla Camera dei deputati. Per il resto, le differenze tra queste due “seconde Camere” restano ferme e rilevanti: nel Bundesrat siedono solo i rappresentanti del governo del Land e, soprattutto, al momento del voto tutti i rappresentanti di uno stesso Land votano nel medesimo modo. Se la prima strada sembra ormai difficile da seguire, la seconda potrebbe anche essere adottata, proprio per evitare che il voto regionale possa dividersi oltre che tra regioni, anche all’interno dei rappresentanti di una stessa regione.

Per poter svolgere il proprio ruolo di contropotere, un Senato delle regioni, anche in salsa italiana, deve poter contare su un dato politico essenziale. Tutto il resto è un modo per mischiare le carte e confondere le idee: come quando s’insiste sull’elettività anche di questo Senato o sull’immunità parlamentare anche per i senatori. Quel che è importante non è il rappresentante, ma il rappresentato. Sono le regioni, soprattutto, che devono essere all’altezza del compito che è loro richiesto. Le regioni da anni non godono di buona salute. Più dei comuni, non sono state in grado di affermarsi come organi di governo territoriale, né, in specie, capaci di realizzare, salvo qualche rara eccezione (Lombardia, Emilia-Romagna) risultati tangibili in termini di efficienza e di benessere per il cittadino contribuente. La prospettiva di una seconda Camera, nella quale portare la voce delle regioni nel Parlamento nazionale, può costituire, anche da questo punto di vista, un’opportunità da cogliere. Del resto, il principale difetto che si imputava alla riforma delle regioni del 2001, da tutti riconosciuto, era proprio l’assenza della riforma del bicameralismo e la previsione di un Senato delle regioni: sia per rafforzare le regioni, sia per spingere il federalismo italiano verso orizzonti cooperativi e meno conflittuali.