A caldo, l'immediata sensazione che l’emozionante cerimonia di insediamento di Joe Biden e Kamala Harris ha suscitato è di sollievo. Le grandi e piccole paure che avevano tormentato la vigilia non si sono materializzate. Per fugare l’incubo di un rigurgito degli eversori trumpiani o di altri terroristi è toccato blindare Washington. A neutralizzare il timore che il patriarca Biden risultasse soporifero o si impappinasse ci ha pensato lo stesso patriarca. Con una performance che almeno per oggi ci impone di aggiungere alla definizione di “usato sicuro”, che gli abbiamo appioppato da quando strappò la nomination, il qualificativo “di lusso”.

Ma prima di rileggere tale performance meritano una menzione le due signore che l’hanno preceduta, facendo capire a tutti che la musica era cambiata. L’italoamericana Lady Gaga ha stretto l’inno nazionale in un’aura di soave solennità, solo impercettibilmente trasgressiva, per poi librarla, leggera, nel cielo della capitale. La latina Jennifer Lopez ha smascolinizzato il rude, virile inno proletario di Woody Guthrie This Land Is My Land, per poi gridarci sopra un militante libertad y justicia para todos.

Biden ha mostrato anzitutto un’ammirevole consapevolezza dei propri mezzi e dei propri limiti. Si è astenuto dalle lungaggini, notoriamente nemiche della qualità e in un caso addirittura letali per il loro autore. Come imparò a sue spese nel 1841 William Henry Harrison, militare di vaglia, ma oratore mediocre, che pagò con una polmonite fulminante le due, interminabili ore inflitte alla platea, nel freddo polare di Washington, per leggere le 8.450 parole del suo discorso. Ma, chiamato a sciogliere un accorato appello all’unità nazionale com’è costume dei presidenti, in specie quelli che devono affrontare una grave crisi, Biden ha mostrato anche di sapere di non essere toccato dalla grazia come Jefferson, cui nel 1801 bastarono 1.730 parole per invitare tutti a “unirci, concittadini, con un solo cuore e una sola mente”. O come Lincoln, al quale addirittura ne bastarono appena 700, nel 1865, al secondo mandato, mentre ancora tuonavano i cannoni, per dire che occorreva “finire il lavoro nel quale siamo impegnati, risanare le ferite della nazione”, ma “senza malevolenza nei confronti di alcuno, con carità per tutti”. Per cui, citando proprio questo Lincoln, Biden per essere il più chiaro possibile, parole ne ha usato 2700, solo una spanna più di Truman nel 1949 e di Obama sessant’anni dopo.

E ha declinato il tema dell’unità da ricostruire con un giusto dosaggio di realismo e ottimismo, impiantandolo saldamente sulla dialettica di fragilità e di forza che sostanzia la democrazia. La democrazia, ha detto Biden citando esplicitamente l’assalto al Congresso del 6 gennaio, è “fragile” perché costantemente insidiata da quanti vogliono impedirle di seguire il suo corso: un corso di incessante apertura, di frontiera mobile, di inveramento di ideali di libertà, uguaglianza e giustizia. Ideali che lotte come quelle delle suffragiste o dei diritti civili, cui Biden ha alluso richiamando le mobilitazioni pacifiche che le hanno sostenute proprio a Washington, hanno spinto e spingono in avanti, facendo della storia americana una vicenda sempre “incompiuta”.

Posta dinanzi a sfide epocali come la pandemia o a problemi strutturali come la disuguaglianza, la democrazia, ha detto Biden, prevale, ed è prevalsa, solo se diventa uno sforzo collettivo. E qui, in un’enfasi di patriottismo civico, il neopresidente ha riportato perentoriamente al centro degli inaugurals quel “noi” che ha campeggiato nei migliori discorsi inaugurali del Novecento, dal Franklin Delano Roosevelt della lotta alla “paura” collettiva, al Kennedy del “non chiedere al tuo paese che cosa può fare per te”, all’Obama del “sì, possiamo” contro la recessione. Un “noi” che viceversa era scomparso nel discorso di Trump, eterno prigioniero, quattro anni fa, nell’improvvisato passaggio dai 140 caratteri dei tanto amati tweets a un discorso di 1.400 parole, di toni inguaribilmente gridati e divisivi: toni incentrati su un demagogico, immaginario “voi” (“questo momento è il vostro momento… appartiene a voi”), del quale l’allora presidente si ergeva a unica “voce”. Una non minore differenza di accenti rispetto al 2017 si è avvertita, del resto, nei passaggi dedicati alla dimensione internazionale, che peraltro, data la gravità della situazione interna, ha occupato solo l’ultimo quarto del discorso, facendo emergere un impulso a un rinnovato “impegno” col mondo “che ci guarda”, in luogo dell’unilaterale “America first”. In questo impulso le aspirazioni fisiologiche dell’unica superpotenza rimasta paiono volersi comporre (e non sarà facile!) nel disegno di “guidare non meramente mediante l’esempio del nostro potere, ma col potere del nostro esempio”.

Il tutto, e qui sta forse il segreto di questo grigio, umbratile, ma fermo e ultranavigato, politico di partito, che sembra a tratti ritagliato fisicamente sul James Stewart di Mr. Smith Goes to Washington, è stato recitato con un’invidiabile empatia (“miei connazionali Americani”), sorretta da un sorriso che si direbbe non stereotipato; un sorriso che si rispecchiava in quello, radioso, di Kamala Harris, muta come impone il protocollo per l’occasione, ma fortemente intenzionata, si sa, a giocare la sua parte. In un’avventura istituzionale che, al di là dell’inevitabile retorica dispiegata da Biden, si profila per molti versi proibitiva. Lo dicono le sfide che la nuova compagine governativa ha davanti, sul piano interno (pandemia, la situazione economica, la ricostruzione sociale e civile) come su quello internazionale (il “reingaggio” col mondo, il confronto irrinunciabile con la Cina). Lo dice la risicatissima maggioranza di cui gode in Congresso, che costringerà a equilibrismi d’ogni tipo. Lo dice quel cospicuo (e maggioritario) contingente di Repubblicani al Congresso che non paiono intenzionati ad abbandonare Trump nella procedura di impeachment, come del resto la maggioranza del suo elettorato.

Eccoci così, per concludere, al convitato di pietra dell’inauguration, Donald Trump. Che ha preferito seguire l’esempio di uno dei peggiori presidenti della storia, Andrew Johnson, anche lui posto sotto impeachment (se la cavò per il rotto della cuffia). E, come Johnson un secolo e mezzo fa, non ha presenziato alla cerimonia, preferendo uscire dalla Casa Bianca in sordina e lasciare la porta sbarrata al nuovo inquilino di 1600 Pennsylvania Avenue. Come si fa con i narcisisti, Biden non ne ha fatto cenno nel suo inaugural. Ma, per quanto si dica in giro che l’establishment l’ha mollato, è difficile non pensare a quella mina vagante e alla complessa procedura di incriminazione che l’attende.