Il Brasile si sposta a destra. Le elezioni del 7 ottobre hanno rispettato le aspettative. Tutti i più recenti sondaggi, infatti, attribuivano un’ampia maggioranza al candidato Jair Bolsonaro. E i risultati hanno confermato questa tendenza: Bolsonaro (del Partido social liberal ˗ Psl) ha ottenuto poco più del 46% dei voti, il candidato del Partido de los trabalhadores (Pt), Fernando Haddad, si è attestato al 29,27%, mentre Ciro Gomes del Partido democrático trabalhista si è fermato al 14,47%. Nessuno degli altri candidati alla presidenza ha superato il 5% dei voti validi. Al ballottaggio del prossimo 28 ottobre, dunque, andranno Bolsonaro e Haddad: si porrà fine in quel momento a una campagna elettorale lunga e tribolata. Haddad, infatti, è stato scelto all’ultimo momento dal Pt prendendo il posto dell’ex presidente Lula, la cui candidatura era stata bloccata dal Tribunal Superior Eleitoral nel settembre 2018. Il Pt aveva scelto Lula mentre questo scontava in carcere una condanna, confermata in Corte d’appello, per corruzione e riciclaggio di denaro. Non meno delicata era la posizione di Bolsonaro, la cui candidatura è stata oggetto di una campagna di opposizione fortissima. Al grido di «Ele não!» in molti sono scesi in piazza, in Brasile e nelle principali città di tutto il mondo, per osteggiare Bolsonaro.

Una campagna elettorale sofferta, dunque, dai continui casi di corruzione che negli ultimi cinque anni hanno falcidiato la classe politica brasiliana, minando profondamente la fiducia dell’opinione pubblica verso le istituzioni democratiche del Paese. Proprio in questo lungo black-out del sistema di rappresentanza risiede il successo di Bolsonaro che si è presentato come il redentore di una classe dirigente moralmente in crisi. Le linee programmatiche, raccolte nel motto «Brasil acima de tudo, Deus acima de todos», si fondano su un’agenda fatta di privatizzazioni delle imprese nazionali. La rigenerazione del Brasile, nelle parole di Bolsonaro, potrà darsi grazie a un rinnovato sostegno alle Forze Armate, a un’estesa applicazione del principio di legittima difesa, a un cambiamento delle istituzioni educative, privandole di «indottrinamento e sessualizzazione precoce». Le proposte di Bolsonaro individuano nelle presidenze di Lula e di Dilma Rousseff e, più in generale, nell’azione politica del Pt la principale causa della débâcle morale del Brasile.

Haddad e il Pt, però, non sono stati a guardare e hanno chiesto ai brasiliani un voto per rendere «il Brasile felice di nuovo», ossia per ricominciare il cammino interrotto con la fine della presidenza di Dilma Rousseff. «Lula é Haddad, Haddad é Lula» era il motto che cercava di compattare il consenso attorno al nuovo candidato del Pt: il programma di Haddad si incentra sulla «rifondazione democratica del Brasile» grazie a un piano di difesa dell’economia di Stato, dei diritti sociali, ambientali e di genere. In un ping-pong reciproco e continuo, Haddad ha mostrato più volte i tratti autoritari delle proposte di Bolsonaro e quest’ultimo ha puntato il dito sulla corruzione dilagante provocata dalle presidenze del Pt.

Le consultazioni della scorsa domenica fotografano questa pericolosa tendenza alla delegittimazione dell’avversario politico. Questa, al momento del voto, si è trasformata in una tensione polarizzante che, almeno per ora, ha dato ampia maggioranza a Bolsonaro. Una maggioranza geograficamente diffusa, considerando che ha conquistato la maggioranza in 17 Stati, mentre Haddad ne ha conquistati solo 8 (tutti nel Nord-est del Paese). Un dato straordinario se si considera che Bolsonaro era appoggiato da un piccolo partito (fino ad oggi il Psl esprimeva nel Parlamento federale un solo deputato e nessun senatore). Bolsonaro, insomma, è stato capace di convogliare su di sé un numero di voti che hanno trascinato le liste del Psl anche alla Camera dei deputati e al Senato, che si rinnovavano contestualmente alle elezioni presidenziali.

Si aprono ora le due settimane che condurranno al ballottaggio e Bolsonaro e Haddad andranno alla ricerca dei voti non solo tra i trenta milioni di elettori che non si sono recati alle urne (l’astensione ha superato il 20%, raggiungendo il dato più alto dal 1998 ad oggi), ma anche i voti che al primo turno sono andati ad altri candidati: Ciro Gomes, pur criticando la gestione del Pt, ha più volte dichiarato che non avrebbe mai votato per Bolsonaro. L’incognita però rimane: l’elettorato di Gomes seguirà le indicazioni del proprio leader?

Il prossimo Presidente del Brasile, che sia Bolsonaro o che sia Haddad, dovrà confrontarsi con una realtà politica atomizzata: nella nuova Camera dei deputati saranno rappresentati 30 partiti politici (nel 1998 ce n’erano 18). Una situazione non dissimile è quella del Senato. L’eccessiva frammentazione del Parlamento è, insomma, un’ulteriore spada di Damocle che pende sulla politica brasiliana. La continua delegittimazione tra le due principali forze politiche e la frammentazione partitica, accompagnate dall’endemica sfiducia dell’opinione pubblica verso la politica, sono ingredienti esplosivi per il Brasile di domani. Ingredienti tristemente noti alla politica brasiliana e, più in generale, a quella latinoamericana. Il che, però, non li rende meno indigesti.