È possibile, nel mezzo di una guerra europea, mentre dal Medioriente provengono quelle terrificanti immagini di innocenza e di morte, essere felici, genuinamente felici, per il successo della tua squadra di calcio? Non solo i feed di Instagram, ma l’animo umano e la Storia dimostrano che sì, questo è possibile.

A Bologna è accaduto anche nel Novecento, quando il grande Bologna allenato dall’ebreo ungherese Árpád Weisz vinse due scudetti filati giusto due anni prima della promulgazione delle leggi razziali che lo costrinsero a fuggire con la famiglia in Olanda (per poi morire comunque ad Auschwitz, nel 1944). E accadde anche un decennio prima, all’alba del fascismo, quando nel 1926 Mussolini venne a inaugurare in pompa magna il Littoriale, l’attuale stadio di cui si pianifica la ristrutturazione. Al tempo il presidente della Federazione italiana gioco calcio era il podestà cittadino, Leandro Arpinati. Perché il Bologna che «faceva tremare il mondo», il Bologna che i tifosi di oggi rievocano nei loro cori nella speranza di resuscitarlo, anche questo fu: una squadra del regime.

Oggi che una curva dello stadio Dall’Ara è intitolata a Árpád Weisz, ci chiediamo come fu possibile che nel Dopoguerra di quell’allenatore così vincente e così amato nessun tifoso parlasse più. Ci chiediamo come riuscì Renato Dall’Ara, il grande presidente che aveva portato Weisz a Bologna e che vinse l’ultimo scudetto nel 1964, a non ricordarlo mai pubblicamente. La risposta molto umana, la realtà di cui in fin dei conti si occupano tutti i romanzi e tutta l’arte del mondo, è che siamo perfettamente in grado di vivere dentro ai rivolgimenti della Storia, scovandovi non soltanto nicchie di piacere privato, ma anche di appartenenza collettiva, che riescono a nutrire la nostra esistenza prescindendo dai grandi eventi di cui tuttavia, storicamente, fanno parte.

Tifare una squadra di calcio significa appartenere a un gruppo umano che costruisce al suo interno una coscienza di sé, fatta di simboli, sentimenti e memoria

Tifare una squadra di calcio non attiene alla sfera dell’individuo, ma dell’identità collettiva. Significa appartenere a un gruppo umano che costruisce al suo interno una coscienza di sé, fatta di simboli, sentimenti e memoria, e che con gli stessi meccanismi di selezione costruisce al suo esterno il «diverso». Si tratta di un procedimento identitario molto simile a quello che, trattando delle cose serie del mondo, e quindi di Dio o di politica, chiamiamo religione o nation-building, e che in quanto tale porta con sé infiniti rischi e controindicazioni, insieme però a una grande opportunità di senso, di comunione e di felicità, che è notevole osservare dall’esterno e stupendo vivere dall’interno.

In questi giorni il tifoso bolognese sta vivendo qualcosa di meraviglioso, proprio in virtù di questo ritrovato, vitale, rapporto che sempre esiste tra la riscoperta del proprio passato e la speranza nel proprio futuro. Da queste pagine verrebbe da dire: proprio in virtù di ciò che la politica organizzata non fa più vivere. La squadra di Thiago Motta, di proprietà canadese e composta quasi interamente da giocatori stranieri, ha riacceso come nessun altro detonatore i tre motori di ogni appartenenza: la lettura del passato (siamo stati una grande squadra, e mentre non lo siamo stati abbiamo saputo soffrire e restare uniti), il godimento del presente (giochiamo meglio di tutti), la fede in ciò che ci attende (la Champions dell’anno prossimo). Il «Bologna in Europa» è la metafora perfetta di una città che ha sempre saputo di dover tornare là dove gli spetta: di una provincia che rivendica il centro, che ritrova un destino radicato nella sua storia.

Il coro che ha accompagnato la stagione, partorito dall’inconscio della curva rossoblù, è un bellissimo esempio del perché Make XY great again sarà sempre un buono slogan, e del perché nonostante la sintassi ottocentesca nemmeno il «fummo da secoli calpesti e derisi» è un verso superato:

«Conosciamo la sconfitta, conosciam la serie B / con appartenenza e orgoglio siamo sempre stati qui / Non è facile però, con il Bologna in fondo al cuor / tornerà a tremare il mondo rivogliamo lo squadron»

Questa miscela buona un po’ per tutti i risorgimenti è stata poi riversata dagli intellettuali dell’appartenenza sportiva, ovvero dai giornalisti locali, negli schemi narrativi che alimentano il mito politico del buon governo emiliano. Si aggiunge qui un ulteriore, interessantissimo, elemento poetico, perché la filosofia di Thiago Motta – fatta di lavoro, di attenzione al dettaglio, di pianificazione, ma anche di generosità e disponibilità all’errore nel nome dell’innovazione – è straordinariamente idonea ad alimentare un’altra importantissima vena dell’idea che abbiamo di noi stessi.

Anche la composizione etnica del collettivo che si muove come un sol uomo finisce per raccontarci il valore dell’integrazione

Motta è l’allenatore che fa giocare tutti in tutte le posizioni, l’allenatore che non dà ruoli ma funzioni: con Motta i difensori crossano e gli attaccanti difendono, nessuno deve temere di sbagliare un retropassaggio, perché ciò che conta è la squadra. Siamo una sorta di «cooperativa del goal», e in questo quadro, anche la composizione etnica del collettivo che si muove come un sol uomo finisce per raccontarci il valore dell’integrazione: guidati da un capitano scozzese e di conseguenza coraggioso e infortunato (Lewis Ferguson), noi schieriamo una «guardia svizzera» Aebisher-Freuler a protezione di un portiere polacco (Skorupski); l’attaccante che tutti ci invidiano e che già stiamo rimpiangendo, Joshua Zirkzee, è un olandese con madre nigeriana, che ama il basket e va a vedere la Virtus insieme al compagno di reparto Santiago Castro, che solo da pochi mesi ci ha raggiunti dall’Argentina ma che si è già tatuato la Torre di Maratona sul polpaccio («Castro uno di noi!»). Non tutti i nostri campioni parlano bene l’italiano, ma dopo che vincono si abbracciano e cantano in cerchio L’anno che verrà di Lucio Dalla.

Insomma, al calcio spettacolare cui abbiamo assistito, noi attribuiamo più o meno consciamente il merito di averci ricordato non soltanto ciò che sportivamente eravamo, ma ciò che siamo socialmente. La Bologna del calcio ci conferma che non c’è nulla di più italiano del locale. Nulla di più europeo. Sciamo in Zampion!