Un voto che vale un conflitto. Nel doppio turno del 27 maggio e 17 giugno il popolo colombiano è chiamato alle urne nelle prime elezioni presidenziali dalla cosiddetta fine del conflitto armato. Dal loro esito dipenderà però il destino dell’accordo di pace siglato nel 2016 tra il governo e le Farc-ep (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo).

Il presidente uscente Juan Manuel Santos ambiva all’eterno riconoscimento del suo popolo, oltre al premio Nobel per la pace. Al contrario, si appresta a lasciare l’incarico con un indice di approvazione che a gennaio ha toccato il 14%, proprio anche a causa dell’accordo. Quest’ultimo, infatti, non ha mai goduto di un ampio consenso nel paese, a causa della bassa popolarità delle Farc e di un’implementazione che procede tra rallentamenti e scandali. Lo scetticismo popolare si sta riflettendo nelle intenzioni di voto, che danno come favorito un detrattore dell’accordo.

Una delle ragioni che il 2 ottobre 2016 spinse quasi 6 milioni e mezzo di colombiani (50,21% dei votanti) a rifiutare l’idea (più che il contenuto) di un patto con le FARC è la tremenda reputazione di cui godono le guerriglie. Nel marzo 2017, un’inchiesta mostrava come oltre il 62% degli intervistati non confidava nel fatto che le Farc rispetteranno le condizioni dell’accordo. A luglio la fiducia nel processo di pace era lievemente cresciuta al 52%, probabilmente grazie all’avanzare del processo di disarmo, ma solo il 9% degli intervistati conservava un’immagine favorevole delle Farc.

La repulsione verso la loro partecipazione politica, prima che i suoi membri si sottopongano alla giustizia transizionale, è stata confermata dalle elezioni di marzo per il Congresso, nelle quali il partito Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria de Colombia) ha ottenuto lo 0,21% dei voti alla Camera e 0,34% al Senato. Nonostante la débâcle, alle Farc andranno i 10 seggi previsti nell’accordo. Uno di questi sarebbe spettato a Jesús Santrich, ex comandante ora agli arresti e a rischio estradizione con l’accusa di pianificare la consegna di 10.000 chili di cocaina negli Stati Uniti. Anche se non ancora comprovata, tale notizia ha gettato benzina sul fuoco per le Farc, che avevano fortunatamente già ritirato la loro partecipazione alle presidenziali in seguito al ricovero del loro candidato: l’ex comandante in capo Rodrigo Londoño Echeverri, alias Timochenko.

Le attività illecite di altri attori armati, tra cui i gruppi dissidenti delle Farc che potrebbero disporre di 1000-1500 uomini (700 secondo il governo), è ulteriore fonte di preoccupazione nell’opinione pubblica. Emblematico è il recente caso dei 3 giornalisti ecuadoriani rapiti e uccisi dal gruppo capeggiato dal Guacho, che ha persino causato un incidente diplomatico. Il presidente ecuadoriano Lenín Moreno ha infatti deciso di non ospitare più a Quito le finora poco prolifiche negoziazioni tra il governo colombiano e l’Eln (Ejército de Liberación Nacional, ultima guerriglia storica attiva), il cui unico traguardo era stato un cessate-il-fuoco durato tre mesi, ripetutamente violato e al termine del quale le ostilità sono continuate. Il Cile si è offerto di ospitarli, ma la speranza di un qualsiasi progresso prima delle elezioni sembra ormai vana.

L’accordo di pace non è un’efficace moneta di scambio in sede elettorale. Secondo alcuni studiper assicurarne l’attuazione è necessario investire lo 0,7% del Pil colombiano per i prossimi 15 anni almeno. Sebbene si ritenga che la pace possa avere effetti economici positivi, e la guerra sia costata miliardi di dollari, ciò implica uno sforzo considerevole per i contribuenti che percepiscono i guerriglieri, sussidiati nella transizione alla vita civile, come i veri beneficiari.

Dall’altra parte, la realizzazione di misure quali la riforma del modello di sviluppo agricolo, o la lotta alla coltivazione di sostanze illecite, rasenta l’utopia. Il narcotraffico, storico combustibile del conflitto, non solo è ancora molto appetibile, ma è addirittura in crescita. L’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crimesegnala che nel 2016 gli ettari di coltivazioni di coca sono cresciuti del 52% rispetto al 2015, raggiungendo le 146.000 unità. Il piano del governo di sostituzione delle coltivazioni illecite procede infatti a rilento: nelle zone rurali, la coltivazione della coca è la più redditizia e spesso i sussidi promessi ai contadini che si impegnano nella sostituzione volontaria non vengono elargiti. In balia dei gruppi armati coinvolti nel narcotraffico, a pagare sono soprattutto i leader comunitari locali: almeno 217 sono stati assassinati dopo la firma dell’accordo.

Infine la giustizia transizionale, racchiusa nella Giurisdizione Speciale per la Pace (Gsp), fatica ad essere messa in atto. La Gsp viene accusata dagli oppositori dell’accordo, capeggiati dall’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, di promulgare un’amnistia generale nei confronti dei guerriglieri. Per questo, nonostante la fast track legislativa stabilita dal governo, il Congresso ha impiegato più di un anno per approvarla, e la legge d’amnistia è stata approvata dalla Corte Costituzionale solo il 2 marzo di quest’anno. Il Tribunale speciale per la pace, la Commissione di verità e le misure di riparazione alle vittime sono lungi dall’essere operativi.

Per i candidati presidenziali il processo di pace è paradossalmente un tema scomodo, poiché viene percepito come un’iniziativa del governo attuale. Il candidato in testa alle intenzioni di voto ufficiali Iván Duque, esponente del partito “uribista” Centro democrático, gode di una posizione privilegiata, essendo la sua opposizione all’accordo naturale. Più illustrativo è il fatto che persino l’ex vicepresidente del governo attuale, Germán Vargas Lleras, candidato in una lista indipendente, abbia espresso scetticismo, salvo poi ammorbidire le sue posizioni ultimamente.

I candidati di sinistra, aperti sostenitori dell’accordo, sembrano avere poche chances di vittoria, anche se i sondaggi online tendono a sostenere il contrario. Su Gustavo Petro, candidato di Colombia humana, grava una pessima gestione come sindaco di Bogotá. Le sue posizioni sul modello socio-economico del Paese sembrano inoltre spaventare gran parte della popolazione colombiana che teme una Colombia “castrochavista”, destinata a fare la fine del vicino Venezuela. Sergio Fajardo, leader di Coalición democrática, e Humberto De La Calle, capo negoziatore del governo all’Avana, sostengono apertamente l’accordo ma non hanno il carisma per unire una sinistra frammentata, la cui competizione interna non gioverà ai risultati elettorali.

Sebbene l’affidabilità dei sondaggi in Colombia sia decisamente discutibile (il Sì al referendum nel 2016 era dato al 54% fino a pochi giorni prima del voto), la probabilità che il nuovo presidente non sia un sostenitore dell’accordo di pace è decisamente alta. Anche se la pressione internazionale potrebbe impedirne lo smantellamento, un inadeguato supporto finanziario o un rallentamento nell’implementazione potrebbero essere sufficienti a far scivolare di nuovo il Paese nel caos. Il voto in Colombia, questa volta, vale un conflitto.

 

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