Quanto reggerà la Willkommenskultur? In Germania la politica di apertura delle frontiere ai migranti è sotto scacco. Solo chi conosce la ferrea disciplina che regola il dibattito nella Cdu riesce a cogliere il senso della lettera inviata da 44 deputati a Angela Merkel. È uno strappo in piena regola, che rompe l’ordinato svolgersi della vita di partito. Tutto è concentrato sulle parole d’ordine lanciate dalla cancelleria: guai a mettersi di traverso. Lo sanno bene tutte le voci critiche, che nel corso dei congressi di partito si sono azzardate a mettere in dubbio la linea politica della cancelliera. Chi grida in Italia contro l’autoritarismo di Matteo Renzi non ha conosciuto quello di Angela Merkel. Non è quindi un caso che molti deputati, alla richiesta dei colleghi di firmare l’inusuale missiva di contestazione al loro capo partito e cancelliere, all’ultimo momento si siano tirati indietro. Le vendette della Merkel sono sempre fredde e ritardate, come dimostra il caso del capogruppo Cdu al Bundestag nei primi anni Duemila Friedrich Merz, ritirato a forza a vita privata; e quello del ministro della Ricerca Norbert Röttgen che, dopo aver rifiutato la candidatura alle elezioni per la presidenza del Land Nord Reno -Westfalia, si ritrovò di colpo esautorato da ogni incarico.

Trovare già di per sè 44 deputati che osino metterci la faccia è un atto politico. E a maggior ragione lo costituisce quella lettera, che chiede espressamente un cambio di rotta nella politica per i rifugiati e l’applicazione delle norme tuttora vigenti. Ovvero l’attuazione del Trattato di Dublino, con annesso obbligo per i richiedenti asilo di registrazione nel Paese di primo approdo. Una richiesta che, se messa in pratica, porterebbe a respingere oltre frontiera una buona parte di quel milione di stranieri, ai quali Angela Merkel questa estate aveva deciso di aprire le porte.

Che cosa ha spinto questi deputati a mettere a repentaglio la loro carriera politica, con un azzardo che negli ambienti della cancelleria viene trattato alla stregua di una insubordinazione? La risposta è semplice: la convinzione che la fonte della loro legittimazione siano gli elettori. A loro spetterà l’ultima parola alle prossime elezioni. Quello che Angela Merkel rivendica per sè – cioè il fatto che sia il popolo a conferirle il potere effettuale, mentre ai deputati è riservato quello formale – le viene ora ribaltato. Timorosi di essere delegittimati dalla propria base, si oppongono perché sanno quanto sia divenuto incontenibile il risentimento nelle periferie verso la politica dell’accoglienza voluta dal capo del governo.

In primavera si terranno le elezioni nei Länder della Renania Palatinato, nel Baden-Württemberg e nella Sassonia Anhalt. È ormai certo che il partito nazionalista AfD (Alternative für Deutschland) otterrà una rappresentanza nei Parlamenti regionali. Dandone ormai per acquisita l’affermazione, i deputati cristiano-democratici sono impegnati ora a fermare la trasmigrazione di voti dal campo conservatore a quello populista.

A farne le spese è anche la Spd, che registra un calo preoccupante dei consensi popolari. Non è un caso che il segretario del partito, Sigmar Gabriel, alleato della Cdu nella Grosse Koalition, parli delle difficoltà di integrazione dei nuovi arrivati e ne rimandi la causa all’“invito” incondizionato rivolto loro dalla cancelliera. Del resto il disagio nel Paese è grande, e anche gli amici-avversari della Csu bavarese hanno subito colto la palla al balzo per prendere le distanze dalla cancelliera. Dopo le dure critiche mosse dal primo ministro della Baviera Horst Seehofer agli inizi di gennaio, fanno discutere le recenti dichiarazioni di un membro del governo. Il ministro dei Trasporti Alexander Dobrindt, infatti, rinfaccia al capo dell’esecutivo la reiterata richiesta di “pazienza”, mentre occorrerebbe al contrario “un veloce mutamento della situazione” nella gestione del fenomeno migratorio.

La soluzione da molti auspicata sarebbe la chiusura delle frontiere. La cancelliera di contro ritiene che non saranno i malumori del suo partito, le pressioni dei suoi alleati e nemmeno le provocazioni bavaresi a mettere in discussione il suo potere. La strategia politica di Angela Merkel è sempre stata, in primis, la tutela del potere economico tedesco e delle sue grandi imprese. La Germania difende il sistema dell’Eurozona perché ciò rispecchia gli interessi delle multinazionali a Nord delle Alpi. Ma la signora del Mecklenburg-Vorpommern sa bene che il vero handicap del suo Paese è sempre stata la sua storia, quell’immagine nel mondo che fa del tedesco il cattivo per antonomasia. Con la promozione della Willkommenskultur (la cultura dell’accoglienza), la Germania ha strappato a Francia e a Gran Bretagna lo scettro di primo della classe nei diritti umani, scalando la classifica dei "buoni". Guarda caso sono proprio quelli i mercati cui mira l’export tedesco.

La magnanimità di Angela Merkel non è mai fine a se stessa, la sua eclatante retorica dei diritti umani offre un assist alla grande industria tedesca e rappresenta, al contempo, un invito indiretto a comprare prodotti made in Germany. Una strategia magistrale, intaccata tuttavia dalle drammatiche vicende dello scorso Capodanno a Colonia. La pancia profonda del Paese è in subbuglio, e le elezioni di marzo daranno un responso sul destino politico della prima donna cancelliere.