Farò rispettare la Costituzione, inch’Allah! Con queste significative parole si conclude la cerimonia d'investitura popolare del nuovo presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita (IBK), tenutasi il 19 settembre allo stadio «26 Marzo», di fronte a 50 mila sostenitori e sedici capi di Stato: tutti africani, a parte Hollande, che per la riuscita dell’elezione ha prodigato tali sforzi da suscitare più di un dubbio sulla titolarità effettiva delle sovranità maliana.

Vincitore del primo turno con quasi il 40% delle preferenze, IBK è riuscito a catalizzare il sostegno di 22 dei 25 candidati esclusi dal ballottaggio: tutti, tranne gli esponenti della classe politica protagonista della democrazia consensuale maliana degli ultimi vent’anni, la cui corruzione aveva scatenato il colpo di Stato contro il Presidente Touré e i successivi 18 mesi di crisi istituzionale. La schiacciante vittoria di IBK al secondo turno, con oltre il 77% delle preferenze, rappresenta la definitiva sconfessione del Fronte anti-golpista per la salvaguardia della Democrazia e della Repubblica (Fdr). Con una campagna elettorale intrisa di retorica patriottica, appelli all’onore e alla dignità, versetti del Corano accompagnati da parole d'ordine d’ispirazione socialista, ha surclassato il rivale Soumaila Cissé, economista, la cui riconosciuta competenza è stata offuscata da un’agenda orientata in senso neoliberista, ormai invisa a un Paese in piena crisi sociale.

Nonostante una lunga carriera istituzionale alle spalle, infatti, IBK è riuscito a imporsi come l'interprete delle istanze sociali di rinnovamento che hanno reso possibile il golpe. Nella convulsa notte del 22 marzo 2012, pare che i militari abbiano chiamato IBK cercando una sponda politica; pur condannando il golpe, il futuro presidente dichiarava tuttavia di «comprendere le ragioni di un esercito umiliato» dall'impreparazione a cui era stato abbandonato a fronte delle agguerritissime ribellioni del nord. Nei mesi successivi, IBK è stato l’unico leader politico a incontrare ripetutamente il capitano Sanogo, mentre molti dei suoi rivali alle recenti elezioni subivano al contrario perquisizioni, arresti arbitrari e minacce. Alcuni uomini del partito di IBK sono stati fra gli animatori delle agitazioni sociali che nel maggio 2012 e nel gennaio 2013 hanno travolto la capitale arrivando a minacciare l’incolumità del presidente di transizione Dioncounda Traoré. Nonostante IBK li abbia sconfessati pubblicamente, l'immagine di “eminenza grigia” del golpe che gli è stata cucita addosso dai suoi oppositori ha finito per giovargli.

IBK è stato inoltre in grado di intercettare la spinta elettorale del rinnovato fervore religioso che, da nord a sud, sta trasformando il volto del Mali, incassando le indicazioni di voto di numerose confraternite religiose, espressione dell’associazionismo di base, e la simpatia dell'Alto Consiglio Islamico, più volte venuto ai ferri corti con le precedenti amministrazioni.

L’intransigenza dichiarata dal nuovo presidente a proposito dell'integrità territoriale del Mali rischia tuttavia di non giovare al processo di pacificazione e dialogo nelle regioni settentrionali, dove, nonostante i toni trionfalistici della diplomazia francese, la conflittualità interetnica rimane esplosiva. L’11 agosto, giorno delle elezioni, un notabile tuareg è stato bastonato a morte nei pressi di Timbuctù mentre si recava al seggio; fra il 15 e il 20 agosto, alla frontiera fra Mali e Algeria, quasi 30 vittime sono risultate dai violentissimi scontri avvenuti fra comunità arabe e tuareg, che neanche le forze speciali algerine sono riuscite ad arginare. L’11 settembre, scontri a fuoco fra il movimento indipendentista MNLA e l’esercito regolare maliano nei pressi di Kidal, in aperta violazione degli accordi di pace di Ouagadougou, hanno lasciato sul campo un numero imprecisato di combattenti.

Il processo di pace risulta ulteriormente frammentato dalle divisioni interne della comunità tuareg, profondamente scissa fra un'élite tribale tradizionale favorevole al compromesso con lo Stato maliano, in cambio della preservazione del propri benefici, e una base giovanile, in larga parte fuggita dalla Libia a seguito della cacciata di Gheddafi, che non vuole rinunciare al progetto indipendentista. Inoltre, l’amnistia per i responsabili di crimini di guerra, evocata confusamente dagli accordi di Ouagadougou e accordata selettivamente ai gruppi ribelli ritenuti più vicini alla tutela francese, rappresenta una precondizione per la pace particolarmente indigesta a larga parte  dell'opinione pubblica, e discutibile dal punto di vista del diritto internazionale.

Infine, il nuovo presidente dovrà misurarsi con i tentativi di egemonizzare il processo di pace esercitati dalle potenze straniere, dalla Mauritania all'Algeria, dal Burkina Faso alla Francia, attraverso la moltiplicazione delle sedi negoziali più o meno formali, e di leader e movimenti più o meno rappresentativi, a complicare ulteriormente un quadro estremamente instabile che nessuna retorica politica può far dimenticare.