Questo articolo fa parte dello speciale Vacanze italiane
Quando si parla di viaggi, il pensiero corre per istinto ai grandi viaggiatori e ai toni apocalittici con i quali, sino dalla metà del secolo scorso, ne annunciano la fine. «Viaggi, scrigni magici pieni di promesse, non offrirete più intatti i vostri tesori», scriveva in Tristi tropici Claude Lévi-Strauss, il quale subito dopo specificava il genere di viaggi ai quali si riferiva citando Bernier, Tavernier, Manucci, quegli intemerati pellegrini dell’Asia che nel XVII secolo narravano di un Oriente in gran parte sconosciuto.
Il nostro orizzonte è ben più limitato e d’ambito strettamente domestico, eppure anche il viaggio di pochi giorni, intrapreso senza particolari velleità di scoperte, può rivelarsi un piccolo scrigno ricco di sorprese. Perché questo avvenga, è necessario che chi viaggia faccia in modo di avere accanto a sé un confidente segreto, il cui compito è di schiudere un’ampia dimensione temporale, oltre a quella spaziale del cammino.
Le parole di questo viaggiatore-ombra ci svelano, se sapute ascoltare, l’anima del luogo che stiamo visitando e talora perfino chi, per primo, ne ha rivelato la valenza culturale e l’incanto. Allorché con Simonetta Neri abbiamo intrapreso il percorso appenninico degli eremi francescani, dalla Verna in Toscana, a Poggio Bustone nell’alto Lazio – poi confluito in un volumetto del Mulino (Andare per eremi francescani, Il Mulino, 2023) – ci hanno fatto da scorta tre personaggi i quali, fra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, scoprirono una serie di romitori a quel tempo del tutto abbandonati. Nel portare alla luce quei luoghi, aspri ma di straordinaria suggestione, costoro hanno fornito anche altre preziose informazioni sul significato che l’eremo aveva per Francesco e su come il suo messaggio abbia saputo travalicare la singola confessione, prova ne sia che le nostre tre guide non erano italiane, ma parlavano lingue diverse e non professavano la religione cattolica.
Facciamo un altro esempio. Chi volesse dedicare una breve vacanza alla scoperta della civiltà dell’Etruria e delle sue necropoli, dalla costa all’entroterra toscano, dovrebbe farsi accompagnare da D.H. Lawrence, il cui smilzo volume sui Luoghi etruschi del 1935 contiene descrizioni appassionate, perfino commoventi, di un mondo lontano, in gran parte sconosciuto, del quale esalta la prorompente vitalità. La sua narrazione istituisce confronti fra le necropoli etrusche di varia fattura e altri monumenti di civiltà remote, facendoci viaggiare in uno spazio e in un tempo sconfinati. «Una strana calma e una curiosa pace aleggiano intorno ai luoghi etruschi dove sono stato», esordisce Lawrence con un senso del luogo che non è quello distaccato dell’archeologo, bensì quello sensibilmente vibrante del poeta, «calma e pace del tutto diverse dall’incantamento di quelli celtici, diverse dall’aspetto vagamente repulsivo di Roma e della sua Campagna malarica, e dall’orribile sensazione che ispirano i luoghi delle grandi piramidi del Messico, Teotihuacan e Cholula e Mitla nel Sud; o dalla idolatria amabile di quelli di Buddha a Ceylon». E conclude evocando la dolce calma di quei luoghi e di quei manufatti seminascosti e, con essa, la «sensazione che un’anima dovesse trovarcisi bene» e avesse tutto il tempo per rammemorare i piaceri dell’altra vita.
Non è affatto vero che in Italia abbiamo visto tutto e che non c’è più nulla da scoprire. Quanti, per esempio, conoscono il sacro bosco di San Vivaldo?
Non è affatto vero che in Italia abbiamo visto tutto e che non c’è più nulla da scoprire. Apprestandoci a curare l’edizione italiana di Scenari italiani di Edith Wharton, grande narratrice americana a cui si deve il celebre romanzo Età dell’innocenza, con la traduttrice ci siamo imbattuti in un capitolo dedicato al sacro bosco di San Vivaldo, località che ci era del tutto sconosciuta. Ubicata al centro di un ideale triangolo che ha per vertici San Gimignano, Certaldo e Volterra, il sacro bosco che porta questo nome è disseminato di numerose cappelle che disegnano la pianta di Gerusalemme. Come si vede nei “sacri monti” che si trovano sulle Alpi Pennine, anche qui ogni cappella ospita delle statue invetriate di scuola robbiana che raffigurano scene della Via Crucis.
Edith Wharton non solo ha scoperto questo luogo e queste statue di grande fascino, nel 1904, in un’epoca in cui erano sconosciute alle stesse Belle Arti, ma si propone oggi come unica, amabile compagna per il visitatore del luogo. Cammin facendo, la scrittrice presta, per così dire, il suo sguardo sagace a noi sprovveduti viaggiatori facendoci apprezzare la particolarità inconfondibile del paesaggio torcano, «un paesaggio che non possiede alcuna vana prodigalità, né stravaganti parossismi», e a cui l’apparente disdegno di facili effetti conferisce «la qualità di un’opera d’arte». Ci insegna inoltre a ricercare le prime raffigurazioni di questo paesaggio sullo sfondo delle pitture quattrocentesche del Sassetta, di Piero della Francesca o del Beato Angelico, dietro le figure in primo piano di santi e madonne. Si tratta dell’atto di nascita della raffigurazione del paesaggio italiano tipo, un paesaggio che in parte abbiamo perduto e che possiamo immaginariamente riconquistare per salvare il salvabile.
L’Umbria meridionale costituisce un mondo a sé che, sino dai tempi del Grand Tour, conosce una straordinaria vivacità di presenze legata alla città di Terni, dove si sosta per andare ad ammirare la Cascata delle Marmore. Anche Jonathan Keates, scrittore e docente britannico dei giorni nostri, narra di essere voluto andare a Terni, tuttavia non per vedere la cascata, ma per visitare il museo della locale fabbrica di armi dalla quale è uscito il fucile con cui Lee Harvey Oswald ha sparato a John Fitzgerald Kennedy.
Scendendo lungo la Valnerina, proveniente da Norcia, nei pressi di Ferentillo, il viaggiatore racconta di essersi imbattuto in un cartello giallastro con la scritta “Mummie”. «Non continuate per Terni, perché perdereste una delle più autentiche stranezze d’Italia», consiglia Keates, «proseguite invece verso la chiesa del paese e suonate per chiamare il custode». Non si sa per quale caso fortuito, più di un secolo fa scoprirono che l’aria della cripta della chiesa aveva la proprietà di conservare i cadaveri. Le mummie che vi sono raccolte appaiono incartapecorite, ma del tutto integre, con la pelle che ha assunto il colore della canapa. Con ogni dettaglio anatomico ben conservato, nella loro inerme nudità le mummie rappresentano il più singolare memento mori che si possa immaginare. A differenza di quanto è stato fatto in altre cripte, qui non hanno vestito i morti per fare loro inscenare un’orrida parodia della vita. I vari personaggi mummificati sono, diciamo così, messi per ritto all’interno di casse con il coperchio di vetro che è simile a quello delle pendole. Le perle di questa raccolta, prosegue il viaggiatore, sono tre cinesi, due uomini e una donna, che morirono di colera, almeno così si dice, durante il viaggio verso Napoli nel secondo Ottocento. Con il loro eloquente silenzio, le mummie di Ferentillo ci ricordano che il viaggio non è solo svago e divertimento. L’Umbria è comunque una terra nelle cui vene scorre un fluido misterioso che, grazie forse ai suoi santi, consente di conferire un senso sempre nuovo alla vita e naturalmente al viaggio.
La Cascata delle Marmore è stata una tappa ineludibile del viaggio in Italia e tutti i viaggiatori più danarosi tornavano in patria con un quadro che la raffigurava: siamo infatti dinanzi al luogo più dipinto in Italia
Una volta lasciate le mummie, chi volesse percorrere la bellissima e intatta Valnerina, non potrebbe non fare sosta alla Cascata delle Marmore. Qualcuno potrà obiettare che siamo al cospetto di un’attrazione turistica più che nota. Tuttavia dinanzi allo spettacolo ad ore che offre la cascata – si trasforma infatti per parte della giornata in una preziosa fonte energetica – dobbiamo ricordare che è stata una tappa ineludibile del viaggio in Italia e che i viaggiatori più danarosi tornavano in patria con un dipinto che la raffigurava. Siamo infatti dinanzi al luogo più dipinto in Italia, nel corso di almeno quattro secoli, dai grandi pittori di paesaggio. La sua immagine rifulge infatti nelle maggiori raccolte d’arte europee, tanto è vero che il principe di Metternich si vantava di avere una bella veduta con la Cascata delle Marmore, mentre la duchessa d’Albany ne volle donare un’altra altrettanto bella ad Alfieri.
Ancora una volta dovremmo imparare ad aggirare l’ovvietà del luogo turistico e ammirare la caduta d’acqua con gli occhi di Thomas Patch o di Camille Corot e magari contemplarla dopo aver letto i versi di Byron o le pagine di Chateaubriand. Il che significa ascoltare il nostro confidente segreto rendendoci conto che siamo sempre e comunque viaggiatori di seconda mano, la qual condizione potrebbe rivelarsi un vantaggio.
Riproduzione riservata