Succedendo alla Società delle Nazioni, l’Onu venne fondata il 26 giugno 1945. Appena due anni dopo, in una fase storica in cui l’India si avvicinava all’indipendenza e la Guerra fredda era agli albori, le autorità britanniche si vedevano costrette a mantenere in Palestina circa 100 mila soldati. Erano sovente presi di mira da gruppi paramilitari sionisti come l’Irgun, guidato da Menachem Begin, e la Banda Stern, capeggiata da Yitzhak Shamir. I vertici di tali gruppi consideravano il terrorismo come una forma di lotta legittima: erano infatti persuasi che “il tempo in cui si potevano impunemente perseguitare gli ebrei è finito; abbiamo imparato la lezione della storia e risponderemo alla forza con la forza, al terrore con il terrore” (Archivio Storico-Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri - AP 1946-1950, b. 2).

La risoluzione 181, votata dall’Assemblea generale il 29 novembre 1947, avrebbe dovuto sancire la nascita di due Stati: uno ebraico, l’altro arabo-palestinese. La componente ebraica presente al tempo nell’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo rappresentava circa il 30% del totale e possedeva approssimativamente il 6,7% della terra (v. L. Kamel, Whose Land?, "British Journal of Middle Eastern Studies", 42, 1, 2014).

Lo Stato ebraico sarebbe dovuto essere costituito su un’area di circa 14.100 chilometri quadrati (il 56,47% del totale). All’interno di quest’ultima erano presenti circa 500.000 ebrei a fronte di 400.000 palestinesi (conteggiando i beduini si registrava una quasi parità). Qualora fosse stato indetto un referendum, la maggioranza ebraica, per quanto ristretta possa esser stata, avrebbe certamente optato per l’autodeterminazione e la separazione.

I palestinesi lamentavano il fatto che, nonostante le restrizioni che erano state imposte da Londra, larga parte della componente ebraica fosse costituita da immigrati approdati in Palestina in anni recenti, dal momento che, ancora all’inizio del Novecento, il rapporto demografico nell’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo era di un ebreo per nove/dieci palestinesi (musulmani e cristiani). Questi ultimi, per contro, inglobavano al proprio interno solo una piccola minoranza (peraltro più difficile da calcolare) di persone giunte sul posto, da zone limitrofe e non da altri continenti, nel lasso temporale antecedente al 1947 (per una trattazione dettagliata della questione demografica si rimanda a Identities and Migrations: a Borderless Middle East’s Perspectives).

Per quanto concerne lo Stato arabo-palestinese, esso sarebbe dovuto essere costituito da circa 11.500 chilometri quadrati (il 42,88% del totale), con una minoranza ebraica composta da circa 10.000 individui (a fronte di 800.000 palestinesi). La restante area di Gerusalemme avrebbe beneficiato dello status di “zona internazionale” sotto il controllo dell’Onu.

Il 56,47% di suolo al quale si è fatto riferimento, dunque la porzione di terra attribuita allo Stato ebraico, inglobava al proprio interno la quasi totalità di una terra inospitale quale certamente è il Deserto del Negev (a quei tempi la popolazione ebraica in quest’area costituiva l’1% dei residenti totali). Alcuni studiosi si sono inoltre spinti a sostenere che la Dichiarazione Balfour del 1917 avrebbe inteso garantire agli ebrei tutta la Palestina mandataria, inclusa l’area dell’allora Transgiordania. Ciò significa che il 75% del suolo della Palestina mandataria sarebbe stato illegittimamente sottratto allo Stato ebraico (su questo tema si rimanda al capitolo VIII del mio Terra contesa, Carocci, 2022).

A queste considerazioni sono seguite numerose contro-argomentazioni che, oltre a fare luce sulla questione della “national home” e della portata del Mandato di Palestina, si sono concentrare in particolare proprio sul ruolo dell’Onu e della risoluzione 181. È stato rilevato che le Nazioni Unite assegnarono allo Stato ebraico un’importante percentuale di suolo che anche anticamente non era mai stata parte integrante di alcun regno israelita (inclusa la costa tra Ashkelon e Ashdod), attribuendo per converso ai palestinesi una porzione consistente di terra che in tempi remoti era inclusa negli antichi regni israeliti. È stato inoltre sottolineato che la decisione dell’Onu non tenne in adeguato conto della situazione economica e sociale legata alla maggioranza locale, alla quale vennero di fatto preclusi strategici sbocchi come quello sul Mar Rosso (sarebbe venuta a mancare anche una via di comunicazione diretta con la Siria), senza dimenticare che circa i 4/5 delle terre coltivate a grano, il 40% della rudimentale industria e la totalità delle terre coltivate ad agrumi si sarebbero trovate all’interno del perimetro di terra destinato alla costituzione di uno “Stato ebraico”. I palestinesi lamentarono il fatto di aver “ricevuto” un territorio in gran parte collinare:

“Non solo agli ebrei – che rappresentavano solo un terzo della popolazione – venne data la parte più grande e più fertile del paese con il tratto costiero più vantaggioso e il solo porto considerevole, così che gli arabi erano quasi completamente esclusi dalle effettive vie di comunicazione marine, ma inoltre 500.000 arabi [400.000] (quasi metà della popolazione araba) sarebbero dovuti restare nello stato ebraico. Un gran numero di questi erano gli abitanti di Jaffa, la più grande città in Palestina tra quelle completamente arabe e il principale porto marittimo degli arabi” (E. Atiyah, The Arabs, Penguin Books, 1958, p. 177).

Ai giorni nostri l’Onu, fatti salvi alcuni limiti evidenti, è tuttora l’organismo internazionale più rappresentativo, un dato non trascurabile se ci poniamo dal punto di vista di chi vede arrivare in casa propria delle forze esterne o si vede imporre delle risoluzioni. La situazione odierna non è però la stessa che si poteva registrare nel 1947.

La risoluzione 181 approvata in quell’anno, quella che nella storia delle Nazioni Unite ha avuto in assoluto le conseguenze più gravide a livello internazionale, non venne discussa da un’Assemblea generale formata dai 193 Paesi che la compongono attualmente. A suggerire una decisione di tale portata furono infatti soltanto 56 nazioni, in rappresentanza di circa 1/5 della popolazione mondiale. Ad approvarla furono 33 Paesi, mentre 13 si espressero contro e 10 si astennero. Su 56 Stati, i due terzi necessari per poter procedere ammonterebbero a 37 unità, ma, con qualche lecito dubbio legato alla legittimità (un dubbio che si potrebbe estendere ad altri casi analoghi), gli astenuti non vennero conteggiati. Gli Stati che, per varie ragioni, non poterono partecipare alle votazioni per decidere i termini dell’eventuale spartizione furono Svizzera, Svezia, Malta, Spagna, Portogallo, Irlanda e ovviamente i grandi sconfitti della Seconda guerra mondiale: Germania, Giappone, Italia, Austria e Romania. Non erano presenti neanche quasi tutti i Paesi che compongono l’Africa e l’Asia, allora entrambe in preda a potenze coloniali come (solo per citare le più “attive”) Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio e Spagna. Oltre alla Liberia (legata agli Stati Uniti sin dalla fondazione), all’Etiopia (“liberata” per mano inglese nel 1941) e all'Egitto, l'unico Stato africano ammesso nell’Assemblea generale era infatti il Sudafrica dell’apartheid, mentre a rappresentare la Cina all’Assemblea generale e al Consiglio di Sicurezza non fu il governo della Repubblica popolare cinese di Mao Tse Tung, la cui nascita venne proclamata il 21 settembre 1949. La figura prescelta dalle cancellerie occidentali fu invece il presidente dell’Assemblea nazionale Chiang Kai-Shek, leader anticomunista che ai tempi poteva contare su cospicui appoggi e finanziamenti da parte del governo di Washington, vedendosi in tal modo riconosciuta una sia pur fragile legittimità da parte dell’Onu.

È opportuno a questo punto concentrare l’attenzione sulla lista delle nazioni che invece approvarono la risoluzione 181. Tra queste sono compresi gli Stati del Centro e Sud America, ai tempi veri e propri Paesi satellite degli Stati Uniti, dal quale dipendevano economicamente in maniera ancora maggiore rispetto ad oggi. Oltre a questi, si espressero a favore alcune nazioni con una sovranità che, nel migliore dei casi, può essere giudicata limitata: la Polonia, la Cecoslovacchia e tutti quegli Stati che “ospitavano” le truppe delle grandi potenze che li avevano liberati, ovvero Stati Uniti e Unione Sovietica. Riguardo quest’ultima, Daniel Pipes ha scritto:

“A quanto pare Stalin era convinto che il potere ebraico fosse così vasto che, alleato a quello britannico, sarebbe stato in grado di annientare tutti i tentativi sovietici. Per prevenire tale eventualità fece del suo meglio per separare i sionisti da Londra. E così, per un intero anno [il 1947-48], l’Unione Sovietica divenne il maggiore sostenitore delle aspirazioni sioniste verso uno Stato ebraico sovrano, promuovendone la causa sia a livello diplomatico sia ricorrendo all’esercito nei momenti di maggiore bisogno” (D. Pipes, Il lato oscuro della storia, trad. it. Lindau, 2005, p. 364).

Un quadro complesso e, a tratti, controverso. Le potenze occidentali (esclusa la Gran Bretagna, fin troppo coinvolta nelle dispute mediorientali), una larga maggioranza di Paesi ad esse subalterne e l’Unione Sovietica decisero più o meno unilateralmente per tutti, senza consultare o tenere conto del parere dei palestinesi, con buona pace di quanti ancora oggi fanno riferimento alle scelte del 1947 senza sforzarsi di analizzare il contesto storico in cui essere maturarono. Alcuni possono valutare la risoluzione 181 come un atto di giustizia. Altri possono considerarla come una inaccettabile imposizione su milioni di esseri umani. Probabilmente fu l’una e l’altra cosa, ma un dato dovrebbe far collimare le opinioni dei vari protagonisti: non fu una soluzione nata dall’insindacabile giudizio delle “libere e sovrane” nazioni del mondo.

C’è poi un secondo aspetto che va al di là delle molteplici interpretazioni e opinioni legate alla risoluzione in oggetto. Il riferimento è al rifiuto espresso al tempo da una percentuale rilevante del mondo arabo e alla decisione di Egitto, dell’Iraq e Transgiordania di attaccare il neonato Stato d’Israele, proclamato unilateralmente da David Ben-Gurion il 14 maggio 1948. Male organizzate e mosse da obiettivi divergenti, le forze arabe subirono al tempo una umiliante sconfitta. Quanto al ruolo dei palestinesi nel contesto di tale “rifiuto”, Uri Avnery, autorevole protagonista di quegli anni, ha problematizzato la questione in questi termini:

“Nessuno chiese agli arabi palestinesi di accettare o rifiutare alcunché. Qualora fossero stati interpellati, probabilmente avrebbero rifiutato la partizione, poiché – dalla loro prospettiva – attribuiva gran parte della loro patria storica a degli stranieri. Tanto più che agli ebrei, che all’epoca costituivano un terzo della popolazione, era assegnato il 55% del territorio – e anche lì gli arabi costituivano il 40% della popolazione. I governi degli Stati arabi rifiutarono la partizione, ma certamente non rappresentavano gli arabi palestinesi, che all’epoca erano ancora sotto il dominio britannico (come lo eravamo noi)”.

Profughi palestinesi e profughi ebrei. Nel corso del 1948 oltre 450 villaggi palestinesi furono depopolati (e sovente, in seguito, rasi al suolo) dalle forze israeliane e circa 770 mila persone – inclusi 20 mila ebrei espulsi dalle milizie arabe da Hebron, Gerusalemme, Jenin e Gaza – vennero sgomberate nell’arco di poche settimane e, in seguito, private della possibilità di rientrare nelle loro case. Alcune di esse fuggirono per cause legate alla paura, sovente dopo aver assistito al tragico destino toccato a loro amici e parenti. Un esempio significativo è rintracciabile nelle espulsioni di massa registrate nel luglio 1948 a Lydda e Ramla: interessarono poco meno di un decimo dell’intero esodo palestinese. La larga maggioranza delle circa 60 mila persone espulse dalle due città venne allontanata a seguito di un ordine firmato dall’allora comandante della brigata Harel, Yitzhak Rabin: “Gli abitanti di Lydda”, chiarì Rabin, “devono essere espulsi rapidamente senza badare all’età” (cit. in M. Gilbert, Israel: A History, Doubleday, 1998, p. 218). Diverse centinaia morirono durante l’esodo a causa della disidratazione o per sfinimento.

Alcuni studiosi hanno sostenuto che l’esodo dei palestinesi sia stato per lo più indotto dalle pressioni esercitate – attraverso i mezzi di comunicazione dell’epoca, la radio soprattutto – dai loro stessi leader, i quali ambivano in questo modo ad avere “campo libero” per sbaragliare le forze ebraiche. Le analisi delle registrazioni effettuate al tempo dalla Bbc forniscono tuttavia un quadro differente: gli studiosi che più si sono occupati di questo aspetto specifico non hanno infatti rintracciato alcun ordine o suggerimento trasmesso via radio finalizzato a esercitare pressioni affinché la popolazione palestinese si allontanasse dalle proprie abitazioni. Per contro sono stati rintracciati numerosi appelli finalizzati a scongiurare che ciò si verificasse (si veda S. Hazkani, Dear Palestine: A Social History of the 1948 War, Stanford University Press, 2021).

È corretto sostenere che le registrazioni effettuate dalla Bbc, così come dalla Cia, abbiano verosimilmente “coperto” solo una parte del totale delle trasmissioni arabe dirette ai palestinesi. Il dato preminente, tuttavia, è per l’appunto il fatto che nessuno abbia mai fornito alcuna prova documentata a supporto della tesi dell’esodo “auto-indotto”. Nelle parole di Erskine Barton Childers:

“Nel 1948 non ci fu un solo ordine, o appello, o suggerimento a proposito dell’evacuazione dalla Palestina da parte di alcuna stazione radio araba, dentro o fuori la Palestina. Esistono [per contro] delle registrazioni monitorate di ripetuti appelli arabi, anche ordini diretti, indirizzati ai civili della Palestina affinché rimanessero al loro posto” (“The Spectator”, 12.5.1961).

È difficile affermare con certezza se la nascita del problema dei profughi palestinesi sia in prevalenza riconducibile a dinamiche belliche o se vada per lo più considerata come il frutto di strategie pianificate e predefinite. Qui basterà accennare al “particolare trattamento” che l’esercito israeliano riservò tra il 1947 e il 1949 ai drusi (in parte anche ai cristiani) presenti sul posto. Rispetto ai musulmani, i drusi beneficiarono infatti di un trattamento che non è esagerato indicare come più “benevolo”. Non a caso i drusi rappresentarono un numero trascurabile del totale delle persone espulse. Ciò rende difficile non dubitare del fatto che siano state soltanto le violenze proprie della guerra a decretare la nascita del problema. Da sola essa non avrebbe potuto fare distinzioni tra drusi, musulmani e cristiani.

Gli ebrei espulsi dai Paesi arabi. A distanza di oltre settant’anni dagli eventi accennati all’inizio, è sempre più frequente imbattersi in analisi volte a proporre analogie tra il caso dei profughi palestinesi – inclusi quelli citati nel caso di Lidda e Ramla – e il “simultaneo sradicamento” degli ebrei presenti in diversi Paesi a maggioranza araba. Yitzhak Cohen, già viceministro delle Finanze israeliano, ha sottolineato ad esempio che “il problema degli ebrei cacciati [dai paesi arabi] è analogo, se non maggiore, al problema dei profughi palestinesi” (cit. in Shas to Seek Payout for Jews Deported from Arab Countries, “Ha’aretz”, 25.11.2008).

Tale analogia, che mira in primo luogo a rimuovere la questione dei rifugiati palestinesi da un qualsiasi futuro negoziato di pace, viene abitualmente presentata nei seguenti termini: a causa “del rifiuto arabo” legato al piano di spartizione proposto dall’Onu nel 1947, scoppiò un conflitto nel corso di esso circa 770 mila palestinesi “fuggirono da ciò che è oggi Israele”; nella stessa fase storica, circa 800mila ebrei che vivevano in Paesi arabi subirono “espulsioni di massa”; si sarebbe dunque verificato una sorta di “scambio di popolazione” tra “rifugiati arabi e rifugiati ebrei”. I palestinesi sarebbero dunque tenuti ad accettare tale ‘reciprocità’, rinunciando ad avanzare richieste legate a possibili risarcimenti o restituzioni.

Chi rifiutò cosa? L’avvio della questione dei rifugiati palestinesi – e, più in generale, il conflitto israelo-arabo-palestinese – viene collegata da alcuni studiosi al “rifiuto arabo” alla spartizione della Palestina suggerita dall’assemblea generale dell’Onu nel novembre del 1947. La questione di chi rifiutò cosa è tuttavia più complessa di quanto a volte traspaia.

In conclusione della precedente sezione Uri Avnery sottolineava che nel 1947-1948 nessuno chiese ai palestinesi di accettare o rifiutare alcunché. A ciò si aggiunga che, dalla prospettiva dei palestinesi, che appena quattro decenni prima rappresentavano i 9/10 della popolazione locale, ciò che avvenne allora non coincise con l’avvio del conflitto, rappresentò bensì il capitolo conclusivo di una “guerra” iniziata già nel 1891. “[I coloni] trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, invadono ingiustamente le loro proprietà, li picchiano senza vergogna e senza alcuna ragione, e sono fieri di comportarsi così”, scrisse quell’anno Asher Ginsberg, uno dei pensatori più influenti del sionismo, dopo un soggiorno in Palestina (cfr. Ahad Ha'am, “Jewish Virtual Library”).

Agli occhi dell’allora maggioranza locale, l’incipit più visibile del conflitto va rintracciato nel 1907, – pochi mesi prima degli scontri di Giaffa – quando l’ottavo congresso sionista creò un dipartimento per la colonizzazione della Palestina, inviando a questo scopo il “padre della colonizzazione sionista” Arthur Ruppin, il quale non mancò di sottolineare che avesse come obiettivo “la creazione di un contesto ebraico e di un’economia ebraica chiusa, in cui produttori, consumatori e intermediari siano tutti ebrei” (A. Ruppin, Three decades of Palestine, Greenwood, 1936, p. 62).

L’obiettivo di un’“economia ebraica chiusa” venne parzialmente realizzata dai leader della seconda e terza aliyot attraverso ideologie come il kibbush ha’avoda (“La conquista del lavoro”), sottesa dalla pratica dell’avodah ivrit – e le pratiche discriminatorie implementate in relazione alle terre acquistate in Palestina dal Kkl (il Fondo nazionale ebraico). Questi e altri aspetti analizzati confermano che la tendenza a collegare la nascita del problema dei profughi palestinesi al “rifiuto arabo” ignora troppa storia e non può che favorire una comprensione limitata di un tema ben più complesso.

Se la questione dei profughi palestinesi va molto oltre il “rifiuto arabo”, ancora più problematica e inadeguata è l’equivalenza – presentata come uno “scambio di profughi” – tra le espulsioni che interessarono i palestinesi e quelle di cui furono vittime, nella medesima fase storica, migliaia di ebrei presenti in alcuni Paesi arabi, i quali subirono discriminazioni e violenze di varia natura.

L’esempio più noto riguarda il farhūd (pogrom) di Baghdad nel giugno del 1941, quando oltre 180 ebrei furono trucidati per mano di iracheni locali. Lo storico Hayym J. Cohen notò che esso “fu l’unico caso di quel genere ad esser stato perpetrato ai danni degli ebrei dell’Iraq, quantomeno in relazione ai loro precedenti secoli di vita in loco” (H.J. Cohen, The anti-Jewish Farhūd in Baghdad, 1941, “Middle Easter Studies”, 3, 1, 1966, pp. 2-17). Indipendentemente dai giudizi espressi da Cohen, appare evidente che i palestinesi non siano responsabili per quanto avvenuto a Baghdad, o in altre città e aree del Medioriente: palestinesi e iracheni appartengono infatti a due contesti molto differenti, con profonde peculiarità gli uni rispetto agli altri.

Da più parti è stato comunque sottolineato che gli ebrei vittime di discriminazioni e brutalità in alcuni Paesi arabi abbiano pieno diritto ad avanzare rivendicazioni: si tratta di un punto di vista pienamente condivisibile, nella misura in cui ogni forma di violenza è ugualmente inaccettabile e deve essere riconosciuta, condannata e risarcita. Eppure, è necessario sottolineare che, contrariamente a ciò che avvenne nel caso dei rifugiati palestinesi, una percentuale rilevante degli ebrei lasciò volontariamente i paesi arabi per raggiungere la loro Eretz Yisrael (Terra d’Israele).

A queste considerazioni vanno aggiunte anche le modalità e le ragioni per le quali palestinesi ed ebrei vennero o meno “assorbiti” nei loro nuovi paesi di residenza. Centinaia di migliaia di palestinesi trovarono rifugio, durante e a seguito della guerra del 1948, in Paesi limitrofi: a larga parte di queste persone è stato proibito, quantomeno fino a un recente passato, di ottenere una cittadinanza e di praticare un ampio numero di professioni. Le leadership arabe hanno in questo senso sfruttato – e in alcuni casi continuano a farlo – la sofferenza dei rifugiati palestinesi per propri tornaconti politici. Ciononostante, l’equiparazione tra i campi profughi palestinesi (in particolare in Libano e in Siria) e i ma’abarot (i campi di transito costruiti negli anni Cinquanta per i profughi ebrei giunti in Israele) cela più di quanto riveli. La ragione per la quale l’ultimo ma’abara venne chiuso già nel 1963 è in parte legata alle “città di sviluppo” (ayarat pitu’ah) costruite in luogo dei precedenti campi di transito. Prima ancora di ciò, tuttavia, il relativamente veloce “assorbimento” dei profughi e degli immigrati ebrei è da collegare al processo attraverso il quale una larga parte di essi andò a vivere nelle case che erano state in precedenza “svuotate” dei loro abitanti palestinesi (cfr. O. Bashkin, Impossible Exodus.Iraqi Jews in Israel, Stanford University Press, 2017). Chiunque abbia visitato Ein Hod, Musrara, Qira e centinaia di altri quartieri, villaggi e città appartenute fino a pochi mesi o anni prima ad abitanti palestinesi si sarà imbattuto in migliaia di case ancora oggi perfettamente conservate. Molte – in alcuni casi la totalità – di esse sono oggi abitata da famiglie di ex immigrati e rifugiati ebrei.

Alla luce delle considerazioni fin qui avanzate non dovrebbe dunque sorprendere che un numero significativo di politici e funzionari israeliani, immigrati in Israele da molteplici Paesi arabi, abbiano rifiutato di essere identificati come “rifugiati”.

Per converso, una percentuale significativa della popolazione palestinese vive ancora oggi in campi composti da rifugiati di seconda, terza o quarta generazione. Queste persone, quantificate in 1,5 milioni di individui (a cui si sommano circa 4,1 milioni di profughi non residenti in campi profughi), rappresentano l’unico gruppo di rifugiati al mondo che possano contare su un’agenzia dell’Onu – la United Nations Relief and Works Agency (Unrwa) – esclusivamente dedicata ad assisterli. Tale “trattamento di favore” è in primo luogo radicato nel pieno riconoscimento del prezzo pagato dai palestinesi per le decisioni – del tutto legittime e necessarie agli occhi di alcuni, immorali e solipsistiche secondo altri – prese dalla comunità internazionale alla fine degli anni Quaranta.

In altre parole, poco più di settant’anni fa l’Unrwa venne istituita dalle Nazioni Unite come agenzia umanitaria per sostenere i rifugiati che vennero privati delle loro case nel corso del 1948, dunque nei mesi successivi al piano di spartizione della Palestina, suggerito dall’Assemblea Generale dell’Onu nel novembre del 1947. Questi esseri umani non avevano – come ad esempio accaduto con la Germania nel caso dei profughi tedeschi cacciati dai sudeti alla fine della Seconda guerra mondiale – un’“altra Palestina” che fosse pronta e che avesse i mezzi necessari per accoglierli e assorbirli in massa. Ancora oggi l’Unrwa rispecchia in questo senso l’impegno della comunità internazionale al fine di fornire una soluzione giusta e duratura a un trauma e una condizione che milioni di individui non hanno mai del tutto smesso di vivere.

[Questo testo rielabora due pubblicazioni dell’autore, cui rimandiamo per ulteriori riferimenti alle fonti e alla bibliografia sul tema: Terra Contesa, Carocci, 2022 e Framing the Partition Plan for Palestine, “The Cairo Review of Global Affairs”, Winter 2022, pp. 74-84].