Forse non è inutile partire da una considerazione che riguarda gli autori di questo testo. Perché tre intellettuali di ambito diverso – un letterato, un filosofo e uno storico –, di formazione, e anche di ispirazione politica, differente sentono il bisogno di intervenire congiuntamente su una questione che reputano di pubblico rilievo?

Se ciò accade significa che qualcosa di fondo è cambiato nel rapporto tra cultura e politica del nostro Paese. Che le paratie ideologiche che lo hanno da tempo segnato, non reggono più. Anche ciò, seppure in maniera ancora problematica, fa pensare alla necessità di un nuovo nesso tra le culture politiche italiane. Non, di certo, nel senso di una semplice omologazione, di una qualche “larga intesa”, di una improvvisa cancellazione di confini. In tal caso non si darebbe neanche la possibilità del confronto. Ma piuttosto con l’intenzione di ridefinire l’orizzonte in cui esso viene a situarsi – costituito lungo assi diversi rispetto al passato.

Ciò diventa particolarmente urgente quando si avverte da molti segni che siamo arrivati a un punto limite. A un punto in cui non conta più molto alcun confine ideologico perché sta per essere superata una soglia oltre la quale non si profila soltanto il blocco, ma un vero e proprio collasso dei modelli socioculturali che hanno fatto per lunghissimo tempo la storia del nostro Paese. Ormai il “ridimensionamento” dei modelli ora detti, già in corso almeno a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ha assunto una portata talmente vistosa da compromettere quella relazione tra cultura e società, tra passato e presente, senza la quale un Paese è condannato alla regressione. Ciò spiega il carattere di urgenza di questo intervento a sei mani, concepito dagli autori come una sorta di appello a ragionare su cose da cui dipende in modo vitale il futuro del Paese.

Il passato irrilevante e una crisi verticale. Uno dei prodromi, e insieme degli esiti, della regressione che ci minaccia è la crisi verticale che investe l’intero retaggio culturale italiano, di cui la tradizione umanistica è parte fondante. Gettando alle ortiche la quale è di fatto tutto il passato italiano che viene accompagnato alla porta. È un fenomeno che si respira da tempo nei mass media, nelle mode da questi accreditate, nell’editoria di consumo, nell’atteggiarsi concreto della pubblica opinione. E che si manifesta nel modo più evidente nel campo della formazione delle giovani generazioni, dove da anni si sta affermando un secco ripudio, un radicale rigetto, di tutto quanto, in qualunque modo, abbia a che fare con l’ambito degli studi umanistici e, più in generale, con la prospettiva culturale che da quegli studi prende vita e che a sua volta quegli studi alimenta.

Alla fine è lo stesso concetto di umanesimo che così si trova ad essere messo inevitabilmente fuori gioco. Vale a dire quella visione del mondo che per secoli ha formato la civiltà di questa parte del pianeta – e dell’Italia in modo particolarissimo –, il cui senso si può compendiare nell’affermazione del carattere fondante di autonomi valori morali e politici.

Il ripudio dell’umanesimo e della sua cultura è, lo ripetiamo, forse la forma principale che assume l’attacco al passato, la sua virtuale consegna all’irrilevanza, che caratterizza il nostro tempo. Ciò sta avvenendo dovunque, ma si capisce come noi italiani, cittadini di un Paese la cui cultura per tanta parte s’identifica con il retaggio umanistico, siamo più esposti di altri agli effetti negativi di tale evento. E sorprendente più che mai è l’indifferenza con cui ad esso assistono – ma si direbbe quasi senza vederlo, senza neppure accorgersene – le classi dirigenti della Penisola.

Tra questi modi primeggia quello che ha per teatro l’ambito dell’istruzione scolastica: un ambito che da decenni sembra governato dalla classe politica sulla base di due sole direttive: evitare fastidi e risparmiare soldi. Ci sembra inaudito che da decenni manchi qualsiasi discussione pubblica appena impegnativa sulle forme, i contenuti e i fini che l’istruzione stessa dovrebbe avere. Dedicata a capire a che cosa essa debba veramente servire. In questo silenzio sulla sostanza della cosa s’e fatta strada una miriade di provvedimenti parziali, tutti mossi però da una medesima ispirazione: da una parte l’idea che il futuro dell’insegnamento – e del suo protagonista, l’insegnante – stia in una crescente tecnicizzazione (da cui la massiccia divulgazione di modellistica pedagogica, l’uso sempre più diffuso di test e quiz, e poi di computer, lavagne luminose, internet); dall’altro la tesi complementare che l’istruzione, sia primaria che secondaria, debba avere sempre di più un carattere scientifico-tecnologico, opportunamente avvolto nell’involucro di un’informe, e non di rado retorica, pedagogia civica (educazione alla Costituzione, all’affettività ecc.), a scapito dei contenuti “umanistici” tradizionali. Il cui declino è stato anche simbolicamente ratificato con l’omologazione nel comune nome di “liceo” dei più disparati percorsi d’istruzione superiore. Dai quali percorsi, come del resto dal liceo che ancora si chiama “classico”, sono stati eliminati, o variamente ridotti nell’orario, appunto gli insegnamenti di tipo umanistico. A cominciare dall’italiano, sicché, come è noto, oggi non è più dato incontrare quasi alcuno studente italiano che abbia letto per intero la Divina Commedia o i Promessi Sposi; per non parlare del latino, grembo linguistico nel quale più di metà dell’arco della storia europea si inscrive.

La rimozione del passato e la crisi del futuro. L’accusa che solitamente si muove a chi fa discorsi del genere è di abbracciare una prospettiva ‘passatista’. È vero l’esatto contrario. La rimozione del passato, infatti, si sposa quasi sempre con una crisi del futuro: chi oggi può saperlo meglio di noi Italiani?

Il riferimento al passato – anche in forma contrastiva – è fondamentale per ogni passaggio in avanti. Per dirne una, l’uso delle più nuove tecnologie nella conservazione e nel restauro del patrimonio artistico italiano è fondamentale, ma se manca una conoscenza approfondita di quest’ultimo essa è inutilizzabile. Allo stesso modo molte delle nuove professioni digitali e telematiche, come anche la gestione dei rapporti con il personale nelle imprese, richiedono operatori dotati di una conoscenza di base e di una creatività che solo alcune Facoltà umanistiche, opportunamente rinnovate, possono dare. E invece è proprio questa consapevolezza della portata innovativa del passato, del suo nesso costitutivo col futuro, in particolare per un Paese come l’Italia, ciò che ci manca.

La conseguenza di tale assenza è palese. Tra quanto fin qui detto e la rovina del patrimonio artistico o paesistico, per esempio, esiste un ovvio rapporto. Tutto si tiene: quando non ci sarà più nessuno a sapere chi sia mai stato Plinio o che cosa è mai stata la repubblica di Venezia, la sorte di Pompei e della Laguna saranno di fatto segnate. A quel punto non ci saranno interessi turistici o Mose che tengano. L’identità, ma anche la possibilità per le persone come per le collettività di affacciarsi sul nuovo, sono date anche e proprio dal passato. Cioè dalla storia, dalla dimensione storica nelle sue tante articolazioni. Privi del passato e della storia né l’Italia né alcun altro Paese sarà più in grado di acquisire una qualunque consapevolezza di sé, e dunque di esistere di una esistenza sua propria. Sarà solo la globalizzazione che ci indicherà traguardi, vie e tempi.

Gli studi umanistici sono per l’appunto gli unici che per la loro stessa natura assicurano il legame con la specificità della dimensione storica della vita e – cosa non meno importante in un’epoca di dilagante egemonia dell’immagine – il legame con la parola scritta e persino un più corretto rapporto tra la parola scritta e l’immagine.

Le discipline scientifiche, infatti, le matematiche o l’ingegneria elettronica, la biologia molecolare o la geologia, sono dovunque le medesime, dovunque eguali a se stesse, e non a caso tendono sempre di più a esprimersi dovunque in una medesima lingua: l’inglese. Che però si dà il caso che non sia la nostra lingua. Certo, quando serve, dobbiamo ben essere capaci di adoperarla. Tuttavia le nostre emozioni, le nostre gioie e le nostre paure più intime, più personali, avranno sempre bisogno, per esprimersi, delle parole di quell’idioma che abbiamo ascoltato fin dalla nascita. Ma che cosa, e come, riuscirà ancora a pensare e a dire chi a quel punto non avrà mai letto nella sua vita un romanzo o una poesia scritta in italiano?

Mettere al bando nell’apparato scolastico il sapere umanistico – come anche da noi si sta facendo – per privilegiare il sapere fondato sulle scienze naturali, significa mettere al bando interi territori e dimensioni dello spirito e della conoscenza umani. Lo ha detto benissimo Isaiah Berlin: significa squalificare “lo specifico e l’unico di contro all’iterativo e all’universale, il concreto di contro all’astratto, il movimento perpetuo di contro alla quiete, l’interiore di contro all’esteriore, la qualità di contro alla quantità, ciò che è culturalmente condizionato di contro ai principi atemporali, la lotta mentale e l’autotrasformazione come una condizione permanente dell’uomo di contro alla possibilità (e desiderabilità) della pace, dell’ordine, di un’armonia finale e delle soddisfazioni di tutti i desideri umani razionali”. Significa squalificare non lo spirito critico, che certamente può trovare terreno fertile anche in una formazione scientifica, ma la capacità di organizzare e strutturare tale spirito collegando ambiti diversi, di portarlo a visioni generali. Che umanità e che società saranno quelle in cui il primo termine delle bipolarità di cui sopra sarà virtualmente scomparso o patrimonio ormai di pochissimi?

La capitolazione di fronte all’università di massa. Abbiamo detto dell’istruzione superiore. Per quanto riguarda il mondo dell’università e della ricerca, le cose, se possibile, vanno addirittura peggio. Chi (a cominciare dai sottoscritti, sia chiaro) ha insegnato in questi anni nelle facoltà, umanistiche non ha potuto o non è stato minimamente capace di cambiare la situazione.

Perlopiù con l’interessata complicità dei professori, infatti, il modulo del “3 + 2” è servito, specialmente in quelle facoltà, a frantumare l’unitarietà delle discipline moltiplicandone assurdamente il numero, a ridurre il carico didattico a misure spesso ridicole, a rendere la stesura della tesi di laurea un’operazione nella maggior parte dei casi di pura facciata. Gli studi umanistici, insomma, hanno capitolato di fronte all’università di massa come pochi altri. Si sono arresi all’aria dei tempi: per esempio introducendo senza batter ciglio la parola “scienza” nella dizione di un gran numero di discipline, sicché a un tratto pure nelle facoltà umanistiche quasi ogni materia è divenuta una “scienza”.

In questo senso sembrano solo una vera (ancorché beffarda) nemesi, gli innumerevoli decreti e disposizioni di vario genere voluti sia dal ministero sia dal Parlamento, che, da anni, in tutti i criteri di valutazione, equiparano assurdamente le facoltà umanistiche a quelle scientifiche. Adottando sempre parametri che, se hanno un senso per le seconde, si rivelano infallibilmente assurdi e oltremodo penalizzanti per le prime. Assurdi, se non ridicoli, nel lessico stesso: basti pensare a quel termine – “prodotto” – usato indistintamente (ma significativamente!) per i brevetti dei professori di ingegneria elettronica e per i saggi di filologia semitica (se ancora c’è nelle nostre università qualcuno che la insegna). Non è certo un caso, del resto, se da qualche tempo a questa parte i ministri dell’Istruzione e dell’università, quando non sono dei politici, sono sempre, invariabilmente, dei docenti di materie scientifiche, e se, come ha ricordato di recente Raffaele Simone, nella composizione dell’Anvur, l’agenzia di valutazione dell’università, gli umanisti sono in assoluta minoranza.

I danni di una valutazione irrilevante, o peggio dannosa. Le modalità con cui è stata concepita, e poi applicata, la valutazione merita qualche considerazione ulteriore. Certo, l’esigenza di partenza – quella di mettere fine alla situazione di caos e spesso di parzialità che per anni ha reso a dir poco opaco il sistema del reclutamento universitario – era più che giustificata.

Ma bisognava calarla nella realtà con una sensibilità culturale proporzionale alla sua rilevanza. Bisognava rendersi conto che applicata ad un ambito così particolare e multiforme la stessa categoria di valutazione (con l’elemento comparativo ad essa inerente) doveva essere circondata da mille distinguo e cautele. Invece ha prevalso di fatto e per tutte le discipline un criterio puramente quantitativo: il numero dei titoli e addirittura delle citazioni, buone o cattive, ricevute. Questo il criterio usato per i candidati alle abilitazioni ma anche nella valutazione delle strutture dipartimentali, per definire la misura dei finanziamenti ad esse assegnati. Inutile dire, come ha osservato Tullio Gregory, che tale modello comparativo di tipo numerico ha portato da un lato a una frenetica corsa a pubblicare, ai titoli, prodotti a migliaia in occasione delle abilitazioni, dall’altro al loro smembramento: due libri valgono il doppio di uno, anche se ottenuti attraverso la sua semplice scomposizione. Il passaggio dal concetto classico di «giudizio» a quello, solo apparentemente neutrale, di «valutazione» costituisce la cifra anche semantica di questo passaggio dal piano della qualità a quello della quantità. Vocaboli come ‘«prodotto», «impatto», «rendicontazione» sono estremamente indicativi della matrice produttivistica di una logica modellata su quella del mercato. Il riferimento dell’intero paradigma della valutazione è quello del marketing aziendale, appena filtrato dalla retorica del merito, naturalmente inteso come prestazione in vista di un utile.

Come in un simile dispositivo, la prima vittima siano gli studi umanistici è appena il caso di sottolineare. Ma anche qui occorre aggiungere qualcosa che va aldilà del recinto dell’Accademia, per coinvolgere l’intero modello sociale.

Il paradigma di valutazione, inteso come cifra generale del nostro tempo, più e prima che strumento di informazione e di selezione costituisce di fatto una modalità di denazionalizzazione della cultura e di omologazione ai parametri globalizzati dell’attuale idolatria ideologica del mercato. Indici bibliometrici, nozione produttivistica di conoscenza, impostazione di fondo di tipo ingegneristico-statistico formano una costellazione integrata il cui esito non può che essere la disintegrazione dei saperi dell’uomo così come sono stati elaborati in secoli di storia italiana e non solo. Basti pensare a quanto avviene sul piano della lingua con l’assoluto predominio dell’inglese.

L’idea che ha guidato tale dissennata omologazione è che il linguaggio sia un utensile neutro, una scatola vuota, riempibile da qualsiasi contenuto. Esso, cioè, non avrebbe rapporto né con il pensiero che veicola né con la storia ed il contesto in cui si genera. I termini sarebbero equivalenti e immediatamente traducibili. Quanto ciò sia sbagliato è evidente per chiunque abbia un minimo di formazione classica. Con l’aggravante che se in Francia un funzionario di Stato si permettesse di esprimersi ufficialmente in lingua inglese, sarebbe cacciato con l’accusa di “attività antinazionale”, mentre in Italia si è arrivati al punto di ignominia di immettere professori stranieri nelle commissioni di abilitazione, col tacito presupposto che quelli italiani sono troppo ignoranti o corrotti per lasciarli fare da soli. Il fatto che a decidere gli idonei in discipline come Filologia dantesca o Storia del diritto romano debbano essere professori portoghesi o russi segna forse uno dei punti più bassi ai quali siamo arrivati.

Alcuni studiosi di matrice umanistica, come Martha Nussbaum, hanno ricondotto tale tendenza al crescente primato dell’economia nelle nostre società. Le uniche forme di sapere che da qualche tempo vengono incoraggiate, potenziate, finanziate sono quelle che hanno un’immediata ricaduta nel mercato del lavoro e nel mondo produttivo. Il criterio prevalente, se non unico, per misurare l’utilità della cultura è quello della sua potenziale incidenza sulla crescita economica.

Naturalmente non tutti i Paesi vanno in tale direzione o procedono allo stesso ritmo. Ma la tendenza di fondo è questa. Ciò determina, secondo la Nussbaum, non solo un decadimento culturale che investe la società contemporanea nel suo insieme, ma anche un deficit di democrazia. Col ritiro del sapere umanistico, infatti, si affievolisce lo sguardo critico sulla realtà e dunque la capacità di confrontarsi in maniera aperta ed inclusiva con le molteplici diversità che ci attorniano.

Tutto ciò è vero, ma è lontano dall’esaurire il problema. Anche il riferimento alla democrazia appare alla fine piuttosto generico e scontato. Il punto da mettere in risalto, almeno per quanto riguarda l’Italia, ci appare infatti un altro. Si tratta piuttosto di capire se e come il declino degli studi umanistici – a favore di quelli tecnico-economici – si rifletta su, e per certi versi contribuisca a determinare, quella crisi del «politico» che è oggi uno dei problemi più urgenti che abbiamo di fronte.

Il ripiegamento del sapere umanistico e quello della politica. Il che ci conduce all’ultima, e forse più importante questione: in che senso il ripiegamento del sapere umanistico si accompagna a quello della politica? Proveremo a rispondere nel modo più sintetico e radicale possibile, salvo poi sfumare e chiarire quanto intendiamo dire. La crisi del sapere umanistico – in particolare letterario, filosofico, storico – si traduce nella crisi del politico, e quindi della politica in senso proprio, perché in Italia il politico è stato costituito alle sue radici proprio da quel sapere. Ancora più nettamente: perché fino alla costituzione dello Stato unitario la politica italiana non è stata altro che il luogo d’incrocio e di tensione tra questi linguaggi.

Non ci riferiamo, affermando ciò, soltanto al timbro politico di opere e autori ascritti legittimamente agli ambiti della letteratura, della filosofia e della storia – si pensi ai casi, certo assai diversi tra loro, di Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella, Vico, Cuoco, Foscolo, Manzoni, Cattaneo. Al carattere mondano e terreno di un sapere filosofico lontano dal ripiegamento nella coscienza interiore o dalla vocazione metafisica di tanta parte della filosofia europea. L’elemento più intrinseco della cultura letteraria e filosofica italiana è costituito proprio da quest’anima politica. Non per nulla l’autore della Commedia èanche quello della Monarchia, così come chi ha composto Il Principe ha scritto anche la Mandragola.

Ma il punto centrale non è neppure questo. Si tratta, piuttosto, del ruolo notissimo, quasi di supplenza che la cultura storica, letteraria, filosofica, ha esercitato in Italia rispetto alla mancata unità politica. L’unico elemento di identità e di unificazione italiana tra il Trecento e l’Ottocento è costituito dalla lingua e dalle opere in essa scritte. Un filo tenace, certo sottile e discontinuo, ma mai spezzato, che da Dante arriva a Manzoni, sfociando nella stagione del Risorgimento.

Se si scorrono i testi più significativi – dai Discorsi di Machiavelli alla Città del sole di Campanella, alle Operette morali di Leopardi – si ritrovano tutte le differenti tonalità del politico, dal realismo all’utopia, dalla profezia al disincanto, dall’espansione al declino. Perfino la produzione intellettuale per molto tempo meno apprezzata, quella, cattolica e tridentina, della Controriforma, ormai sappiamo che se misurata sul terreno del politico, manifesta una potente capacità di sintesi e di incidenza egemonica sulle strutture istituzionali e culturali del tempo. Fosse pure – come senz’altro è – di tonalità indubbiamente conservatrice.

Qui si radica la singolare drammaticità di una concezione della storia lontana dal progressismo della filosofia illuministica e romantica. La storiografia italiana fin dal suo inizio – da Guicciardini a Vico, a Cuoco, allo stesso De Sanctis – è consapevole della connessione costitutiva tra storia e crisi. La crisi non è solo un possibile contenuto, ma la forma stessa di una storia sempre attraversata dal proprio limite naturale. Quello che conferisce alla grande storiografia italiana tra il primo Cinquecento e il primo Ottocento il suo carattere più peculiare è l’individuazione del nesso necessario tra sviluppo ed origine.

La storia, la filosofia e la letteratura italiana esprimono, nella relazione drammatica tra origine e compimento, il principio stesso del politico – la precedenza del conflitto sull’ordine (Machiavelli), della crisi sullo sviluppo (Vico), della sconfitta sulla vittoria (Cuoco), del limite sul compimento (De Sanctis).

Conclusioni

Ma se il “politico” è indubbiamente la chiave interpretativa della cultura italiana, allora si tratta, oggi, di ritrovarla. Dopo anni di recessione e di crisi siamo divenuti completamente avvezzi all’idea che l’alfa e l’omega della politica sia l’economia. C’è una logica nel fatto che oggi l’Europa della crisi economica sia al tempo stesso l’Europa della crisi della politica. Una crisi nella quale si riflette – è impossibile non vederlo – il progressivo declino della cultura umanistica che tutto l’Occidente conosce da decenni. L’Italia è solo il caso più grave: forse perché le culture politiche del Novecento italiano hanno avuto tutte un legame fortissimo con la storia nazionale, in quanto tutte hanno preso le mosse da una critica più o meno giustificata nei suoi riguardi. Si pensi, per fare solo qualche esempio, ad autori come Croce, Gentile, Amendola, Gramsci, Bobbio.

E tuttavia dalla formazione delle classi dirigenti della Penisola è progressivamente scomparsa proprio la conoscenza di tale storia e del secolare dibattito intorno ai suoi aspetti, così come la conoscenza anche dei luoghi del proprio Paese . Alcuni anni fa quasi tutti gli allievi lombardo-veneti di uno degli autori di queste pagine confessavano candidamente di non aveva mai visitato Roma, e tanto meno di essersi mai spinti a sud di essa; quasi a inconsapevole declinazione personale della virtuale cancellazione da tutti i curricula scolastici dell’autonomo insegnamento della geografia. È uno dei tanti sintomi della scomparsa di quella multiforme, complessa, identificazione, anche psicologica prima che genericamente culturale, con la dimensione nazionale, che fino ad oggi ha rappresentato una premessa indispensabile per ogni impegno politico. Come non collegare tutto ciò con l’abitudine di far studiare all’estero i propri figli adottata dalle classi dirigenti italiane da almeno due o tre decenni – naturalmente per frequentare corsi che fanno largo spazio a discipline che con la cultura e la storia italiana – e quasi sempre con gli studi umanistici – hanno in genere ben poco che fare? Ma allora un’ultima domanda s’impone: che coesione culturale e sociale, che solidità, che politica, sarà mai in grado di mettere in campo un Paese del genere? e che futuro esso può mai avere? È su questo che ci si interroga quando si parla di retaggio umanistico, lo si capisca una buona volta: di quello che ci aspetta, non di nostalgici rimpianti da anime belle. 

[Dal n. 6/2013]