Come insegnare la storia a scuola? Spesso capita di rispondere a questa domanda rimanendo a un livello piuttosto lontano dalla concretezza dell’attività didattica nella classe, che invece è il luogo in cui certe battaglie si perdono, si vincono, o – peggio ancora – neppure si combattono. Qui si propone un modo diverso di riflettere su questi temi: partendo da un’esperienza e provando a immaginare di vederla dal vivo. Proviamoci.

Settembre 2023: sono i primi giorni di scuola. Siamo a Genova, nella Scuola secondaria di I grado “Don Milani”, una scuola particolare, in virtù di una tradizione di sperimentazione didattica e progetto per l’innovazione e la ricerca che dura dal 1976. Ci sono 87 tra alunne e alunni, suddivisi in quattro classi del I anno.

Osserviamo gli insegnanti di storia.

Hanno già fatto la prima lezione sulla musa della storia, Clio. Hanno visto l’affresco conservato a Pompei, la scultura esposta al Louvre, le opere di Giovanni Santi, di Artemisia Gentileschi, di Vermeer, di Pierre Mignard, di Hugo Kaufmann. Con gli studenti, hanno ricercato e confrontato le pose e gli attributi con cui Clio viene raffigurata, poi hanno accolto, divertiti, l’idea di un ragazzino di invocare la musa affinché assista le classi nel nuovo percorso triennale di storia.

E ora? Siamo alla seconda lezione. Gli studenti di ciascuna classe provengono da una decina di scuole primarie diverse. Attenzione, non da classi diverse, quello sarebbe normale. No, proprio da scuole diverse. I docenti non possono, quindi, contare in alcun modo su quello che in gergo viene chiamato il “curricolo verticale”. Anche volendo, è molto difficile prendere in mano il lavoro condotto dai colleghi e proseguirlo. Certo, verrà recuperato, scoperto negli interstizi delle lezioni, emergerà dai racconti, come parte della dote individuale di ciascun allievo. Ma ora serve un’attività che aiuti a prendere posizione rispetto ai fondamenti della disciplina.

Se per la Musa bastavano immagini e testi, oggi è tutto diverso. L’insegnante di storia sta portando tre grandi borse da cui si intravedono documenti assai voluminosi.

Entriamo in classe. Eravamo rimasti alla corona di alloro di Clio, al suo libro, alla tromba, alla tavoletta da scrittura, allo sguardo della Musa che alcuni ritraggono rivolto verso destra, altri verso sinistra. Oggi, però, l’insegnante sembra un’altra persona: “Veloci, non c’è tempo da perdere. Togliete penne e astucci, tenete solo una matita e un foglio. Abbiamo materiale prezioso, da maneggiare con grande cautela. Dividetevi in piccoli gruppi, unite i banchi”. E prosegue: “Ogni gruppo analizzerà dei documenti. Osservateli, prendete appunti, discuteteli”.

E qui scopriamo il contenuto delle borse e l’attività: si tratta di vecchi tomi un po’ impolverati. Sul dorso della rilegatura compaiono i riferimenti ad alcuni anni scolastici, dagli anni Venti agli anni Cinquanta. Sono registri generali dei voti che provengono dall’archivio scolastico. In ogni pagina compaiono una o due schede relative a ciascun alunno iscritto nella Scuola, con le informazioni anagrafiche (luogo e data di nascita, nome dei genitori, residenza, ecc.), i voti riportati nelle varie discipline nei diversi periodi scolastici (trimestri o quadrimestri) e l’esito finale, e altre informazioni tipiche di una segreteria scolastica (per esempio, pagamento delle tasse scolastiche, esonero dalla frequenza di alcune discipline, eventuali “punizioni e annotazioni”).

Si tratta di vecchi tomi un po’ impolverati. Sul dorso della rilegatura compaiono i riferimenti ad alcuni anni scolastici, dagli anni Venti agli anni Cinquanta

Compito degli studenti: annotare il tipo di informazioni presenti nei documenti e, soprattutto, tutte le domande che emergono.

Giriamo tra i banchi. Nei gruppi emergono osservazioni diverse:

- chi descrive l’oggetto analizzato: le copertine dei registri, ora in pelle, ora in cartoncino; la bellezza e la precisione della scrittura a mano con pennino e inchiostro nero (“Com’è diverso dal nostro modo di scrivere…”);

- chi nota questioni legate al genere: classi solo maschili o classi solo femminili, ma anche il fatto che in tutti i registri analizzati sia riportata la professione del padre degli studenti iscritti, ma non ci sia alcun riferimento alla professione della madre (“Ma è possibile che nessuna mamma lavorasse?”); la presenza di materie d’insegnamento diverse per maschi e per femmine (per esempio, nel registro del 1955/56, “Educazione fisica e lavoro” per gli alunni, “Educazione fisica” ed “Educazione domestica” per le alunne);

- chi si appassiona ai contenuti di materie sconosciute: per esempio, “Computisteria”, “Canto corale”, “Elementi d’igiene”, “Stenografia”, “Dattilografia”, ma anche “Storia, geografia e cultura fascista” nel registro del 1944/45;

- chi elucubra sull’ordine in cui le materie vengono registrate: per esempio, nel 1929/30, al primo posto era “Lingua italiana”; nel 1944/45, “Condotta”; nel 1955/56, “Religione”;

- chi approfondisce le vicende di alcuni alunni: incuriosiscono l’esenzione dal pagamento delle tasse per il “Figlio di mutilato di guerra”; la molteplicità di assenze nei registri del periodo bellico; il trasferimento della famiglia, talvolta con motivazioni estreme, come “In esilio”; l’alunno del 1929 che abitava nel palazzo vicino a quello della nonna di un alunno del 2023;

- chi è sensibile a questioni sociali: “Ma se facevano così tante assenze in periodi di guerra, era giusto bocciarli?”; “Non è strano che ci siano solo nomi italiani? La maggior parte degli alunni in questo registro sono nati in Liguria, non è come nella nostra classe!”.

Dopo un’oretta di lettura, i gruppi sono chiamati a condividere osservazioni e a fare domande. Fedele alla consegna, una ragazza alza la mano: “Non ho una domanda sui registri. Ne ho una per lei: ma perché abbiamo fatto questo lavoro?”. L’insegnante rilancia alla classe: “Già, perché, secondo voi?”.

Ecco, il corso di storia di questo triennio scolastico ora è davvero iniziato. È il momento di uscire dalla classe e di lasciare ad alunni e docente alle loro lezioni.

Forti di questa esperienza per interposta persona, proviamo a ragionare sui motivi di questa piccola attività, condotta ormai da qualche anno con gli studenti delle prime classi da tutti gli insegnanti di storia della “Don Milani” (d’altra parte in questa scuola-laboratorio, tutti i docenti progettano e realizzano un curricolo condiviso). Né si tratta di un unicum, sia chiaro: esperimenti simili di uso degli archivi scolastici per la didattica della storia e l’addestramento all’uso delle fonti sono documentati già da alcuni anni, anche in Italia (qui un esempio del 2015 sull’uso di un registro scolastico; qui invece un’esperienza più recente, che coinvolge gli studenti di un liceo impegnati nella costruzione di un centro di documentazione; qui infine un’altra esperienza, questa volta usando temi di italiano).

L’attività serve anzitutto ad avviare un gruppo classe ancora in fase di formazione a un compito che consenta di agire collettivamente (di conoscersi, parlare, dialogare) e di calarsi nel ruolo di piccoli storici; dapprima, naturalmente, senza neppure accorgersene, giacché la consapevolezza arriverà dopo, sulla base di esperienze vissute e non di definizioni studiate a memoria. La richiesta iniziale agli studenti viene formulata in modo volutamente poco strutturato: un docente non solo ha bisogno di gettare le premesse della sua didattica, con un’attività in cui gli studenti siano coinvolti in prima persona per poterla poi richiamare (“Vi ricordate quando abbiamo consultato i vecchi registri…?”), ma ha anche necessità di iniziare a conoscere le nuove persone che ha di fronte a sé (nelle relazioni con l’oggetto di conoscenza, con i pari, con gli adulti, con gli strumenti di lavoro, con le azioni legate all’apprendimento).

Inoltre, l’uso delle fonti di diverso tipo è uno degli obiettivi di apprendimento identificati nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (Miur, 2012), che da oltre un decennio definiscono il quadro di competenze di cui dotare gli alunni italiani fino alla fine della scuola secondaria di I grado.

Iniziare dalla pratica e dall’allenamento all’uso, anziché dalla teoria sulle fonti, non è mera preferenza, bensì reale esigenza

Iniziare dalla pratica e dall’allenamento all’uso, anziché dalla teoria sulle fonti, non è mera preferenza, bensì reale esigenza. Accade spesso che nelle scuole, ancora oggi, venga chiesto agli studenti di memorizzare e ripetere quanto spiegato dall’insegnante in classe o dal libro di testo. Senza nulla togliere all’importanza dell’ascolto, della comprensione, della memorizzazione e della conseguente capacità di rielaborazione e ripetizione di quanto appreso, se si attribuisce rilevanza al ruolo attivo da parte dello studente nel proprio percorso di conoscenza, diventa necessario metterlo in condizione di essere per davvero il protagonista e di essere ritenuto degno di rispetto, considerazione e fiducia. Senza nulla togliere alla lezione in cui si presentano le fonti storiche e la loro classificazione (che arriverà, deve arrivare, ma dopo, non prima), è evidente che affidare agli studenti fonti documentarie autentiche e uniche è una cosa molto diversa. Significa trattare degli undicenni come i cittadini adulti che vorremmo che diventassero: persone capaci di maneggiare documenti (nel nostro caso, parte dell’archivio storico), di valorizzarli, cercando di comprenderli e interpretarli. Di nuovo, senza spiegarglielo prima con richiami ad alti valori morali che solo i migliori (cioè quelli che meno ne hanno bisogno) capirebbero: piuttosto, facendo loro toccare con mano le cose della storia, affinché ne capiscano il senso e l’importanza, partendo da una storia a loro prossima per tempo e spazio. I vecchi registri della propria scuola sono fonte storica tanto quanto la stele di Rosetta: a differenza della stele di Rosetta, però, hanno il vantaggio educativo di essere comprensibili e interessanti per gli studenti a cui vogliamo farli usare.

C’è, infine, un posizionamento rispetto all’idea di alunno e di docente che è importante chiarire fin dai primi giorni in una classe. L’urgenza di “imparare a ragionare storicamente”, spesso ricordata da Antonio Brusa, richiede riflessione su cosa significhi ragionare storicamente. Non a caso, in questa piccola attività didattica le domande contano molto più delle risposte. Anche e soprattutto quelle che non potranno avere una risposta precisa: “Riusciranno i nostri registri digitali a essere letti fra 90 anni? Cosa racconteranno di questi nostri anni? Saranno in grado di far appassionare qualcuno ai documenti del passato?”. Lo sguardo è sempre come quello di Clio, a volte girato verso il passato, a volte verso il futuro; del resto, per richiamare ancora le Indicazioni nazionali già citate, “la scuola è luogo in cui il presente è elaborato nell’intreccio tra passato e futuro, tra memoria e progetto”. Soprattutto, si tratta di domande genuinamente interessanti, proprio perché non hanno al momento risposte certe. Ciò che davvero conta, tuttavia, è formare studenti inclini a porsele.