Chi frequenti da abbastanza tempo le librerie italiane avrà notato, negli ultimi anni, l’invasione di “storie di vita”, stipate in sezioni distanti come romanzi, manualistica, non-fiction, graphic novel. La pratica del life writing (com’è chiamato nei Paesi anglofoni, dove si vantano interi reparti dedicati) si sparpaglia fra generi e mercati diversi: quante “vite” di personaggi dell’intrattenimento occupano le classifiche di vendita? E basta vedere l’ennesimo biopic o scrollare una pagina di un social network a scelta per accorgersi che l’atto di diffondere un contenuto qualsiasi con la scorciatoia del racconto di sé sta al di qua delle teorizzazioni critiche sui generi artistici – benché, a uno sguardo attento, possa rivelare un grado di raffinatezza tecnica che snuda la presunta spontaneità del “vuotare il sacco”. Se non bastasse la possibilità di appagare il proprio narcisismo senza venir giudicati per questo, la scrittura di sé ha anche un altro vantaggio pratico: richiede una perizia inferiore a quella che serve per inventare una storia da zero, con il suo mondo d’invenzione e la fatica di calarsi in uno (o più) punti di vista che non ci appartengono.

In tempi egocentrici, al suddetto frequentatore di librerie viene la tentazione di farsi da parte, nel nome della mai così inascoltata considerazione di Blaise Pascal: “l’io è odioso” (“le moi est haïssable”). Altrimenti, a mente fredda, si potrebbe volgere il rifiuto in una domanda che affiora ogni volta che ci viene offerto un libro di life writing: “in nome di che cosa, autore, autrice, scrivi?”. A questo interrogativo hanno provato a rispondere, negli ultimi mesi, tre saggi, che da sponde generazionali diverse convergono sintomaticamente verso lo stesso campo di studio: Il narratore postumo di Sergio Zatti (Quodlibet, 2024); Dico a te, lettore di Marine Aubry-Morici (il verri edizioni, 2023, con postfazione di Daniele Giglioli) e Infamia e biografia di David Watkins (Neri Pozza, 2023). In comune c’è l’obiettivo di individuare i presupposti filosofici e analitici del discorso di sé in vari momenti della storia culturale dell’Occidente. Il Leitmotiv direi antropologico dei tre saggi è la conquista della legittimità democratica al racconto di sé: un processo faticoso che, ricostruibile già a partire dalle Confessioni di Agostino (a cavallo fra il IV e il V secolo a.C.), rilette da Zatti come una sofisticata, personalissima imitatio Christi, ha il primo compimento con l’essenza apologetica, indagatrice e paranoide delle Confessioni di Rousseau: lì, privata di vocazione secolare, l’esposizione dei lati scandalosi e più intimi di sé serve a conquistare la fiducia del lettore, che è invogliato a credere all’autenticità dell’autobiografo anche nei punti dove quest’ultimo decida, in segreto, di mentire.

Dei tre, Watkins è il più attento a individuare una cesura temporale fra l’era del divieto al racconto della singolarità e l’autobiografia di massa, allorché sottolinea l’inattualità delle Vite parallele di Plutarco. Per la biografia antica, la pratica del life writing non consegna al lettore l’esperienza di una singolarità, ma serve a tipizzare l’individualità in un esempio di carattere generale che travalica i confini del suo passaggio terreno. Viceversa, biografia e autobiografia moderne, che per Watkins fanno capo alla lezione di Rousseau, si baserebbero, rovesciando l’esemplarità di Plutarco, sulla “nozione di un carattere unico e irripetibile […] inseparabile da una definizione negativa: l’individuo è anzitutto ciò che gli altri non sono” (p. 126). Se l’autobiografo non può fondare il suo diritto espressivo sul fatto di essere migliore degli altri (investito di un’autorità riconosciuta che giustifichi la presa di parola), può almeno rivendicare un’unicità auto-assegnata, capace di durare nel tempo. L’identità consiste anche in questa inafferrabile fedeltà a sé stessi, ricomposta retrospettivamente pur nelle deviazioni e nelle incoerenze del soggetto.

Se l’autobiografo non può fondare il suo diritto espressivo sul fatto di essere migliore degli altri, può almeno rivendicare un’unicità auto-assegnata, capace di durare nel tempo

Una simile attenzione all’autenticità come risorsa di discorso della persona comune sancisce una svolta artistica della modernità, e in esteso segna un momento di passaggio di una classe sociale nascente (la piccola borghesia) e del suo bisogno di riconoscimento. A cascata, l’attenzione per le fasi biologiche trascurate dal racconto biografico premoderno (l’infanzia su tutte, come ricostruisce Zatti) e per i soggetti ritenuti indegni di rappresentazione “alta” fino a neanche troppo tempo fa (le donne, tolte sante, amanti e regine, ma anche le minoranze etniche e linguistiche) riassume la nuova centralità della sfera del particolare: quel fattore che permette di sprigionare significati universali dall’irrilevante. La libertà di applicare a se stessi la lettura indiziaria del passato e costruire per via di racconto la propria identità è un privilegio raro, che il life writing più di ogni altra forma espressiva ha concesso ai suoi lettori.

Questa doppia meccanica, emotiva e conoscitiva, ovviamente precede Rousseau; tutti e tre i saggi lo riconducono con pochi (forse troppo pochi) dubbi alla tradizione dei Saggi di Michel de Montaigne, due secoli prima. In Zatti la presenza dei Saggi è pulviscolare, anche se lui preferisce soffermarsi su autori italiani nella seconda parte del libro dedicata ai casi studio (Dante, Petrarca, Cellini, Vico, Alfieri e in mezzo un capitolo sulla lunga fedeltà a Tasso). A giudizio di Watkins, in Montaigne ha particolare forza il legame fra declino della raffigurazione tipizzante e ascesa della singolarità quale comune denominatore della nostra civiltà, sulla scorta della celebre massima dei Saggi per cui ciascun uomo porta su di sé la forma intera della condizione umana. La biografia non sarebbe dunque una forma, ma una modalità scritta del pensiero che nei secoli successivi diventerà preponderante, come in Nietzsche – che però Watkins lascia fuori dalla porta. Infine, Dico a te, lettore pone Montaigne a capostipite ideale di un “protocollo di scrittura duttile e poliedrica” (Aubry-Morici, p. 5) che accomuna i veri oggetti di studio del libro: non le autobiografie, i saggi narrativi. La “crisi dell’esemplarità” diagnosticata alla prima età moderna (Aubry-Morici, p. 59) si fa premessa di esistenza del saggio narrativo di oggi, una categoria non di finzione, ancora in parte da codificare, in cui autori come Emmanuel Carrère, Annie Dillard, Geoff Dyer, Giorgio Vasta (pochi di un corpus ben più largo) mettono ordine nel mondo rintanati nella nicchia della loro esperienza. 

Tutte queste riflessioni, insomma, entrano in sintonia nel momento in cui disegnano in controluce la conquista del diritto a fare dell’“io” l’oggetto principale di conoscenza, e a convertirlo nello strumento per interpretare la realtà circostante senza i conforti di saperi istituzionalizzati (religioni, ideologie politiche). Il ricordo, l’aneddoto, l’emozione idiosincratica sono alcuni elementi di una democratizzazione del discorso personale. Al culmine di un processo plurisecolare, “infame” e “illustre” smettono di corrispondere a forme codificate come la commedia e la tragedia antiche, non obbediscono più alla separazione dei codici espressivi individuata da Erich Auerbach nella sua teoria della rappresentazione della realtà nella letteratura occidentale. Non a caso, l’eredità di Mimesis (1946) lampeggia in tutti e tre i testi. Per Aubry-Morici, il narratore-saggista riflette, a partire dall’intelaiatura di senso dello storytelling, sul proprio rapporto con gli oggetti immateriali del presente. Alla lezione di Auerbach rimanda anche l’analisi di alcune tracce linguistiche e stilistiche come chiave per decifrare intere epoche: la profusione di “proposizioni ipotetiche dell’irrealtà e l’accumulo di interrogativi deliberativi” (Aubry-Morici, p. 29); le tecniche di distanza mediata e sdoppiamento fra un io narrante reale e la sua controfigura inventata. L’attenzione dell’autrice si volge a una comprensione filologica del contemporaneo, che si espande verso lo studio dell’egocentrismo di massa: merito tanto meno trascurabile se si tiene conto che Aubry-Morici è di madrelingua francese, ma dimostra sia nelle letture sia nella sua penna una sensibilità linguistica piuttosto rara.

Il ricordo, l’aneddoto, l’emozione idiosincratica sono alcuni elementi di una democratizzazione del discorso personale

Muovendo da un’impostazione non dissimile, Watkins sceglie di soffermarsi sulla storia delle idee, scandita da una manciata di nomi che quintessenziano quasi due millenni di scrittura con una sicurezza quasi vertiginosa: non c’è un vero campione di testi, ma l’elegante indugio concettuale conferisce a Infamia e biografia originalità d’approccio anche nei punti discutibili. Si pensi alla tesi circa le fattezze antimoderne dell’agiografia: il santo delle narrazioni tardoantiche e medievali si allontana dalle “tipologie di esistenza ritratte nella biografia di età imperiale” (Watkins, p. 57) e sconfina in una stilizzazione senza individualità, con l’ambito del sacro che ingloberebbe tutto quel che di umano c’è stato in queste esistenze. Ma appunto Auerbach ha mostrato che il realismo particolare delle vite degli altri subisce una mutazione con la cultura cristiana. Se si prende, per dirne una nota, la Legenda maior di San Bonaventura su Francesco D’Assisi, è agevole cogliere che la trattazione approfondita di tutto ciò che non è illustre nelle storie di vita ha debiti pesanti con la letteratura agiografica. Aiuta a capirlo, di riflesso, la sezione che Zatti dedica alla Commedia di Dante. Dietro la lezione di Auerbach (e dei suoi Studi su Dante), Zatti rilegge il poema nella cifra di un’autobiografia corale, sospesa fra retrospezione e predestinazione, in cui si conferisce dignità di parola a persone comuni più che ai papi, agli imperatori, agli eroi. Spesso le anime vengono sottratte all’oblio solo dalla testimonianza di Dante: i grandi poeti dell’Antichità nel Limbo non parlano, esauriti nello spazio di pochi versi, ma poche pagine dopo la semisconosciuta Francesca da Rimini è la prima anima a stagliarsi sul palcoscenico ultraterreno. Dante ci offre un’argomentazione poetica e indiretta, di potenza non sottovalutabile, a favore della legittimità diffusa del discorso di sé.

Indubbiamente, l’atmosfera comune non basta a mascherare tre metodi di lavoro distanti, talvolta conflittuali: il debito con la teoria freudiana della letteratura, nella lezione di Francesco Orlando, è dichiarato in Zatti; Aubry-Morici è decisamente più eclettica, e non è che sia del tutto un male; dietro Watkins c’è Agamben, con la sua lunga riflessione sul diritto di rappresentazione che finisce per sovrapporsi a quello di rappresentanza. C’è anche l’Agamben meno eccezionale, purtroppo, quando il discorso di Infamia e biografia si trasforma in sforzo performativo sull’etimologia dei concetti, e diventa così marcato da costeggiare un certo snobismo per i dati di fatto della storia letteraria. Stupisce l’excursus sull’autoritratto figurativo fra XV e XVI secolo, in cui si afferma con tono drastico che l’artista poteva rappresentarsi solo in quanto “immagine di una tipologia di esistenza o di una classe sociale” (Watkins, p. 96): puntualizzare che “non mancano eccezioni” è giusto, ma troppo facile se non si ha il tempo di menzionare pittori non proprio secondari come Raffaello, Van Eyck, Michelangelo… Tutti e tre i saggi hanno comunque il merito di studiare il passato senza compilarlo né appiattirlo sul presente, e soprattutto di provare a rispondere a una domanda spaventosa, che ogni teorico e pratico del life writing dovrebbe porsi in partenza: “Perché questa storia mi riguarda?”. Nella consapevolezza che una risposta universalmente valida a questa domanda non c’è, né in questi libri né altrove, se non autoevidente e vuota. Così come non si sa dire, una volta per tutte, perché mai si metta in pausa la vita per apprestarsi a scrivere la propria storia: se non perché “ho bisogno di farlo”.