Un sistema politico bloccato. Dal ritorno della democrazia gli elettori spagnoli hanno sempre saputo chi avrebbe guidato il Paese poche ore dopo l’apertura delle urne. Non è stato così per la prima volta la sera del 20 dicembre 2015 e analoga situazione si è ripetuta ieri, domenica 26 giugno, alla chiusura dei seggi.
L’esito del voto ha confermato la previsione principale di tutti i sondaggi e cioè che nessun partito avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta per governare in solitudine. È stata smentita, invece, l’altra previsione di molti sondaggi: il sorpasso dei socialisti (Psoe) da parte di Unidos Podemos, l’alleanza elettorale tra il partito di Pablo Iglesias e la formazione post-comunista Izquierda Unida.
Probabilmente a sbagliare, però, non sono stati i sondaggisti che non potevano prevedere l’effetto del Brexit al quale, a mio modo di vedere, è da attribuire in parte l’esito del voto. In considerazione dell’instabilità e delle incertezze provocate dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, gli elettori spagnoli hanno preferito orientare la propria fiducia sulle due forze tradizionali. Almeno una parte di essi. Così il voto ha visto la conferma del Partito popolare (Pp) come forza politica più votata, con un incremento di 14 seggi (da 123 a 137); il Psoe restare seconda forza, sia pur con la perdita di 5 seggi (da 90 a 85); Unidos Podemos perdere voti, ma conservare i 71 seggi che Podemos e Izquierda Unida avevano ottenuto separatamente; Ciudadanos perdere voti e seggi, passando dai 40 che aveva conquistato in dicembre ai 32 attuali.
Per quanto riguarda la formazione di una maggioranza di governo, dunque, il quadro resta immutato rispetto agli ultimi sei mesi. Il Pp si è fermato a notevole distanza dai 176 seggi che nel Congresso dei deputati costituisce la soglia per la maggioranza assoluta. Una soglia che non raggiungerebbe neppure qualora Ciudadanos si mostrasse disponibile a superare la pregiudiziale anti-Rajoy, ribadita in ogni occasione durante la campagna elettorale. D’altra parte neppure un governo di sinistra, organico o alla portoghese, dei socialisti con Unidos Podemos ha i numeri per governare. Sulla carta, oltre a un governo Pp-Psoe di cui si dirà più avanti, solo un’intesa a tre – Psoe, Unidos Podemos e Ciudadanos – consentirebbe di varare un governo: ma allo stato attuale, viste le pregiudiziali del Psoe contro Podemos, di Podemos contro Ciudadanos e viceversa, si tratta di un’ipotesi improbabile quant’altre mai. Aggiungendo che la leadership di Mariano Rajoy ne è uscita rafforzata e quella di Pedro Sánchez non indebolita (come sarebbe avvenuto se si fosse verificato il sorpasso di Podemos), le prospettive restano incerte, ma non c’è dubbio che il sovrano assegnerà al leader popolare, almeno in prima battuta, l’incarico di formare il nuovo governo. Sarà in grado Rajoy di rompere l’isolamento in cui il suo partito si è venuto a trovare negli ultimi anni? Riuscirà a conquistare un numero di astensioni superiore ai voti contrari e a varare un governo di minoranza? Per farlo dovrà convincere i socialisti che in questo modo si scoprirebbero sul fianco sinistro, spalancando a Podemos la strada per quel sorpasso che ora non c’è stato, ma che potrebbe prodursi alla prossima occasione.
Occasione che comunque non pare imminente perché è difficile pensare che gli spagnoli vogliano ricominciare da tre, cioè ricorrere per la terza volta alle urne nel giro di un anno. Il segnale lanciato dall’incremento di circa quattro punti dell’astensione, in questo senso, è stata chiara.
Si fa un gran parlare di «grande coalizione» tra popolari e socialisti. Le pressioni interne dei poteri che contano (imprenditori, banche ecc.) sono forti e non lo sono meno quelle che vengono da Bruxelles a cui manca da mesi, e ora in un momento così delicato, un interlocutore spagnolo. D’altra parte occorre considerare che le posizioni di popolari e socialisti erano e restano divaricate e difficilmente conciliabili. Lo sono in politica economica, fronte sul quale il Pp si fa vanto della crescita del Pil del 3%, dimenticando che la disoccupazione viaggia attorno al 23%, quella giovanile al 46% e che il rapporto deficit/Pil è stato del 5% nel 2015. Lo sono di fronte alla questione catalana, alla quale Rajoy non è stato in grado di fornire risposte. Lo sono, infine, in materia di Costituzione che il Psoe, seppure in modo confuso, vorrebbe rimodellare in senso federale, trovando la netta opposizione dei popolari.
Una soluzione logica sarebbe quella di varare un governo di transizione di ampia convergenza con pochi punti programmatici. In primo luogo una nuova legge elettorale, che a partire da una maggiore proporzionalità, assegni anche un modesto premio di maggioranza al partito più votato al fine di garantire la governabilità. In secondo delle misure economiche necessarie a diminuire la forbice, aumentata in Spagna come altrove, tra i più ricchi e le fasce sociali più povere. In terzo luogo provvedimenti straordinari per combattere la disoccupazione giovanile. Infine, ma non ultimo, per interloquire con le istituzioni europee attraverso un rappresentante pienamente legittimato. Che è anche il punto sul quale più facile sarebbe raggiungere l’intesa dato che l’euroscetticismo non alberga in nessuna delle quattro principali forze politiche e neppure in quelle che rappresentano i nazionalismi catalano e basco.
Purtroppo la logica e la visione del futuro ben poche volte guidano la politica dei partiti, e il paradosso di questa del tutto ipotetica soluzione sarebbe quello di avviare dall’alto quel processo che non si è riusciti a portare a compimento dal basso, nonostante il terremoto prodotto dalla comparsa di Podemos e Ciudadanos, e cioè la riforma del sistema politico spagnolo uscito dalla Costituzione del 1978. Un obiettivo che il voto di ieri ha indubbiamente allontanato, lasciando la Spagna ancora a metà del guado.
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