Lo scorso 7 febbraio si sono svolte in Azerbaijan le elezioni presidenziali anticipate per sottolineare che si inaugurava una “nuova era” votando, per la prima volta, in tutto il Paese. E, per questo, il presidente Ilham Aliev ha portato l’intera famiglia a votare a Stepanakert (Khankendi per gli azeri). Si è così conclusa l’esistenza dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, mai riconosciuta ma di fatto sopravvissuta per oltre trent’anni.

Il retroterra storico della vicenda affonda le radici in un’area dove per secoli si sono scontrati tre imperi: persiano, ottomano e zarista. Con vicende intricate e modifiche non solo della geografia, ma anche della composizione demografica ed etnica dei territori interessati. E anche se non si tratta di un “conflitto antico” (il nucleo della questione prende corpo nei primi anni del Novecento) ciò ha permesso alle parti in causa di manipolare la storia per rivendicare i reciproci “diritti ancestrali”.

Restando all’epoca recente va ricordato che, dopo il crollo dell’impero russo nel 1917, le tre nuove repubbliche transcaucasiche (Georgia, Armenia e Azerbaijan) combatterono per ottenere il controllo dei territori ancora oggi al centro della vicenda. E cioè l’enclave armena del Nagorno-Karabakh, l’enclave azera del Nakhichevan e l’area di Zanzegur al confine con l’Iran. Gli azeri riuscirono a scacciare gli armeni dal Nakhichevan, il contrario accadde per Zangezur, mentre, nel Nagorno-Karabakh, gli inglesi furono determinanti nello scontro fra azeri e armeni dopo il ritiro turco, riaffermando l’appartenenza della regione all’Azerbaijan.

Per quanto riguarda il Karabakh, il nuovo potere bolscevico, dopo alterne vicende, riconfermò la sua appartenenza all’Azerbaijan, con una decisione ispirata dall’allora Commissario per le nazionalità, Josep Stalin, probabilmente influenzato anche dalla volontà di coltivare un buon rapporto con la nuova Turchia di Kemal Ataturk. E così, il 5 luglio del 1921, venne dichiarata la nascita della Regione autonoma del Nagorno-Karabakh (Nkao).

Dopo decenni di compressione nel periodo sovietico, con l’arrivo di Mikhail Gorbaciov il dissenso armeno riprese vigore, inviando petizioni e delegazioni al Cremlino e con deliberazioni del Soviet della regione autonoma. Ma, in assenza di risultati concreti, e con l’inizio del processo di dissoluzione dell’Urss, si sviluppò una spirale di tensione e scontri che, nel 1989/90, produsse un vero e proprio conflitto interno all’Unione, coinvolgendo le truppe mandate dal ministero della Difesa sovietico e le forze di polizia speciali istituite dalle due Repubbliche in competizione.

La svolta finale avvenne con il crollo dell’Urss (31 dicembre 1991) e la nascita dei due nuovi Stati indipendenti, Armenia e Azerbaijan, che vennero riconosciuti dalle Nazioni Unite con i confini precedentemente stabiliti. In rapida sequenza, con la dichiarazione di indipendenza del Karabakh (tre giorni dopo quella dell’Azerbaijan), la decisione azera di abolire lo statuto autonomo della regione e il successivo referendum degli armeni del Nagorno sull’indipendenza, iniziò uno scontro militare diretto. E così, un conflitto nato come interno fu internazionalizzato.

La svolta avvenne con il crollo dell’Urss e la nascita dei due nuovi Stati indipendenti, Armenia e Azerbaijan, che vennero riconosciuti con i confini precedentemente stabiliti

Per questo, l’allora Csce (non ancora Osce) decise, nel Consiglio di ministri a Helsinki del marzo 1991, la convocazione di una Conferenza di pace a Minsk, con la partecipazione, oltre ad Armenia e Azerbaijan, di altri dieci Paesi: Bielorussia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Germania, Svezia, Francia, Federazione russa, Turchia, Stati Uniti e Italia.

Ho avuto modo di seguire direttamente questa prima fase perché all’Italia fu dato l’incarico di preparare la conferenza e a me di presiederla. Il compito si dimostrò subito proibitivo. Il numero di Paesi coinvolti rendeva ancor più complicata la regola del “consensus”, mentre alcuni di essi avevano interessi contrastanti. Basti pensare a Russia, Turchia e (per la potente diaspora armena) la stessa Francia.

Soprattutto, si scontravano due principi inconciliabili: l’autodeterminazione e l’integrità territoriale. Perfino i primi passi furono difficili, per la richiesta degli armeni del Karabakh di avere un ruolo formale (l’Armenia sosteneva di non essere parte del conflitto) e della minoranza azera del Nagorno di rappresentare ufficialmente quell’area. Dopo lunghi negoziati a Villa Madama concordammo di definire le due componenti del Karabakh “parti interessate”, con diritto di essere consultate e di presenziare alle riunioni plenarie.

Bastarono poche sessioni per verificare la necessità di svolgere une serie di missioni preparatorie nei Paesi coinvolti e nell’area del conflitto. E fu subito chiaro che, godendo di una maggiore coesione e superiorità militare, la parte armena era interessata principalmente a cambiare con la forza la realtà sul terreno. Così ad ogni missione lo sforzo (con l’assistenza di due eccellenti diplomatici come Mario Sica e Antonio Armellini) fu quello di elaborare proposte di una tregua e una road map per aprire il negoziato. Purtroppo, ad ogni tentativo, corrispondeva una successiva conquista territoriale armena.

La prima volta, dopo aver concordato un breve “cessate il fuoco” per poterci recare a Stepanakert, finimmo bombardati in un bunker ad Agdam (il punto di scambio previsto) e, tornati a Baku, fummo informati che era stata conquistata Shusha, città simbolo delle tradizioni azere e punto strategico per dominare il resto del territorio. Durante la seconda missione apprendemmo che gli armeni avevano preso il controllo del “corridoio di Lachin” per collegare direttamente il Nagorno all’Armenia. La terza volta, dopo aver discusso e concordato con la dirigenza armena a Stepanakert i termini per un possibile inizio del negoziato, una volta rientrati a Roma fummo informati della presa di Agdam e, nel periodo successivo, gli armeni conquistarono ben sette distretti azeri circostanti il Nagorno Karabakh.

In ogni caso, gli sforzi fatti nel 1992/93 produssero le quattro risoluzioni dell’Onu (822,853,874,884) in materia. In tutte e quattro (mai implementate) il Consiglio di sicurezza, sulla base delle mie raccomandazioni come presidente del “gruppo di Minsk” espressamente citate, richiedeva la cessazione delle ostilità e l’adesione delle parti al nostro “Adjusted timetable” (più volte modificato per adeguarlo alle nuove situazioni) nel quale si proponeva, tra l’altro, la restituzione dei distretti azeri occupati, la riapertura delle frontiere, una missione Csce di monitoraggio, il rientro dei rifugiati, un negoziato fra le parti in causa per la definizione dello status finale del Nagorno Karabakh.

In aggiunta a ciò, in maniera del tutto informale, suggerivo ai presidenti Ter Petrosyan e Heydar Alyev (padre dell’attuale presidente azero) il modello altoatesino come possibile “terza via” fra la richiesta di indipendenza (che nessuno avrebbe mai riconosciuto) e l’offerta di ripristinare l’autonomia dell’epoca sovietica (che gli armeni non prendevano nemmeno in considerazione). La proposta, cioè, di un’autonomia che, pur rimanendo all’interno dell’Azerbaijan, avrebbe goduto di un “ancoraggio internazionale” a garanzia del rispetto da parte di un governo dalle discutibili credenziali democratiche.

Non so quanto realistica potesse essere questa ipotesi (alla fine del 1993 l’Italia fu sostituita dalla Svezia). Ricordo però un presidente Ter Petrosian estremamente attento, durante il vertice Csce ad Helsinki nel giugno del 1992, mentre ascoltava il presidente austriaco illustrare la soluzione altoatesina per la quale aveva appena rilasciato all’Onu la “quietanza liberatoria”. Ricordo anche l’atteggiamento tutt’altro che chiuso di Heydar Alyev. E so che, nel dicembre 2018, venni invitato a Baku da Hikmet Hajiyev (consigliere speciale dell’attuale presidente azero) per partecipare a una conferenza con i rappresentanti della comunità internazionale e ribadire la stessa proposta. Proposta che lo stesso presidente rilanciò nei giorni precedenti il conflitto del settembre 2020 e perfino nelle sue prime fasi (interviste a Bbc e a Rai).

La convinzione armena di avere la superiorità militare e l’appoggio russo non ha favorito un atteggiamento flessibile

Certo è che la convinzione armena di avere la superiorità militare e l’appoggio russo non ha favorito un atteggiamento flessibile (Ter Petrosian fu allontanato e i due presidenti successivi furono armeni del Nagorno), così come il passaggio a una co-presidenza del “gruppo di Minsk” (Francia, Russia, Stati Uniti), stabilita nel dicembre del 1994, non sembra aver apportato una maggior efficacia nel negoziato. Sta di fatto che per 24 anni non si è andati oltre i cosiddetti “principi di Madrid” (2007) che si limitavano a riecheggiare le 4 risoluzioni Onu e dei quali, tra l’altro, non è mai stato emesso un testo formale.

Nel frattempo, la situazione geopolitica nell’area è cambiata drasticamente. Così come i rapporti di forza. E la mancata ripresa di un negoziato serio dopo l’elezione del nuovo primo ministro armeno Nikol Pashinian (un attivista della lotta contro la corruzione) ha aperto la strada per un’offensiva militare dell’Azerbaijan. Con il decisivo apporto dei droni turchi, sono stati così conquistati i distretti occupati dagli armeni ripristinando, con la ripresa di Shusha, anche un controllo di fatto dell’interno Nagorno.

Il successivo “cessate il fuoco” si è trasformato rapidamente in una completa resa degli armeni. E, con la Russia impegnata nell’aggressione all’Ucraina, nel settembre dell’anno scorso gli azeri hanno occupato non solo l’intero Karabakh, ma anche alcune posizioni strategiche in territorio armeno. Di lì potrebbero partire per aprire il “corridoio di Zangezur” lungo il confine iraniano, connettendosi così al Nakhichevan. O spingersi perfino oltre, visto che l’appetito vien mangiando e che gli armeni sono militarmente in ginocchio.

Per ora, resta solo il dramma dell’esodo della popolazione armena dal Nagorno Karabakh e la constatazione che, quando nelle crisi internazionali si preferisce la guerra al compromesso ragionevole, spesso si finisce per perdere molto di più di quanto si sarebbe potuto ottenere attraverso il negoziato.