Se n’è andato alla vigilia del suo compleanno, il 27 aprile scorso, come l’autore della sua vita, Francesco Petrarca, che morì ad Arquà – pare – nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374, poche ore prima del suo settantesimo compleanno. Può darsi l’avesse pure previsto in un suo saggio, o forse aveva, come il poeta suo omonimo, artatamente modificato la sua data di nascita, che all’anagrafe recita 28 aprile 1942? Non lo sapremo mai, il segreto l’ha portato con sé. Francisco Rico, per gli amici “Paco” – anche se io non sono mai riuscito a chiamarlo così – è stato tra gli ultimi grandi filologi romanzi alla Auerbach, Curtius, Spitzer, ovvero tra coloro che sono partiti dallo studio dalla letteratura medievale per impossessarsi di un metodo grazie al quale aprire le porte della letteratura mondiale, giungendo al cuore della letterarietà. Amava ripetere con orgoglio e compiacimento, e senza ombra di autoironia, la definizione di se stesso che diversi amici gli avevano affibbiato: “un’anima naturalmente letteraria”.

Per Rico il buon filologo e il buon critico dovevano essere anche buoni scrittori, per interpretare i vuoti e i silenzi che isolano una fonte dall’altra

In effetti Francisco Rico non avrebbe potuto far altro che lo scrittore, seppur travestendosi infinitamente con le parole altrui; e ho detto a posta scrittore, anche se Rico non risulta scrittore nel senso corrente del termine, perché per lui il buon filologo e il buon critico dovevano essere anche buoni scrittori, per interpretare i vuoti e i silenzi che isolano una fonte dall’altra, di fronte al cui studio asettico, generalmente, il medio professore si ferma; in uno dei suoi ultimi libri, ad esempio, Ritratti allo specchio: Boccaccio, Petrarca (Antenore, 2012), Rico cercava di comprendere il complicato rapporto tra Petrarca e il suo miglior allievo, Giovanni Boccaccio, attraverso i significativi non detti e i fondamentali non scritti tra i due. Del resto Francisco Rico amava l’anticonformismo, il paradosso, la polemica come chi non vive nel mondo accademico, oppure in quel mondo, come lui, è entrato subito da leader a soli 28 anni, come cattedratico di Letteratura spagnola medievale all’Università Autonoma di Barcellona (ma probabilmente «la ricopriva fin dalla pubertà, vista la sua spaventosa precocità in tutto», come dice, con un misto di ammirazione e perfidia, il narratore di Così ha inizio il male dell’amico Javier Marías), concedendosi il lusso di non obbedire alle regole del sistema universitario, ai suoi protocolli e leggi non scritte. «Quando morirò, non descrivetemi come un santo», mi pregò una volta. No, professore, non c’è pericolo: Lei è stato un uomo dalle moltissime virtù, e dai coltivati vizi.

Francisco Rico fu allievo di José Manuel Blecua e Martín de Riquer, ma, da bravo umanista, considerò sin da subito l’Italia come sua patria d’elezione; per questo scelse nel nostro paese maestri adottivi quali Guido Martellotti e Giuseppe Billanovich, sotto il cui magistero perfezionò i suoi studi petrarcheschi e umanistici. Dei tanti volumi del professore che abitava a Bellaterra (a pochi chilometri da Barcellona), occorre qui sottolineare in particolare l’impatto avuto da alcuni di questi sulla filologia e la letteratura italiana ma, più in generale, sulla storia delle idee attorno alle quali si è costituita l’identità europea. Già il primo volume del ventottenne Rico muove in questa direzione: con El pequeño mundo del hombre. Varia fortuna de una idea en las letras españolas (Madrid, Castalia, 1970¹; trad. it. L’uomo come microcosmo. La fortuna di un’idea nella cultura spagnola, Bologna, Il Mulino, 1994) Rico, indagando la persistenza, dai presocratici al Novecento spagnolo, di un’idea fondativa per il pensiero europeo quale quella di “uomo come microcosmo”, si inserisce nella tradizione della più nobile filologia romanza che, da Curtius a Spitzer, si è sempre votata a valorizzare l’unità millenaria della tradizione letteraria europea, percorsa da topoi ed idee di lunga durata. Innovando profondamente, grazie alla sua sensibilità per l’aspetto formale e la dimensione storica dei testi letterari, il concetto (fraintendibile) di realismo offerto da Auerbach in Mimesis, con La novela picaresca y el punto de vista (Barcelona, Seix Barral, 1970; trad. it. B. Mondadori, 2001; trad. ingl. Cambridge University Press, 1984) Rico individua invece nel Lazarillo de Tormese nel Guzman de Alfarache gli archetipi del romanzo realista dell’Ottocento: attraverso un’analisi acuta della originalissima “finzione” attuata dall’anonimo autore del Lazarillo e da Mateo Alemá, Rico spiega come questi narratori spagnoli, infrangendo i canoni della dominante retorica aristotelica, abbiano creato una nuova modalità di narrazione, in grado di coniugare il linguaggio prosastico della vita con quello fittizio della poesia, e imposto un modo nuovo di leggerla. La sua magistrale opera su Petrarca (Vida u obra de Petrarca: lectura del Secretum, Padova-Chapel Hill, Antenore-University of North Corolina, 1974), inspiegabilmente mai tradotta in italiano, ha goduto di un’ampia fortuna europea e a tutt’oggi risulta senza dubbio uno degli studi che non possono mancare nelle bibliografie petrarchesche: partendo da una nuova proposta per la datazione delle redazioni del Secretum (1347, 1349, 1353), Rico riscrive qui la fondamentale stagione centrale della vita del poeta, che in quegli anni cruciali passerebbe «dalla filologia alla filosofia»; ne esce una rinnovata visione d’insieme della sua parabola intellettuale, da ultimo fissata ne I venerdì del Petrarca (Milano, Adelphi, 2016). Ne El sueño del humanismo (Madrid, Alianza, 1993; Il sogno dell’umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Torino, Einaudi 1998; Paris, Les Belles Lettres, 2002), invece, tratteggiando in poche pagine un quadro di ampio respiro della civiltà del Rinascimento italiano, Rico riesce a far dialogare armonicamente due filoni critici negli studi umanistici a lungo in contrapposizione dialettica tra di loro, vale a dire quello retorico e filologico promosso da Kristeller e Billanovich e quello filosofico di Eugenio Garin: è il racconto dell’affascinante parabola del sogno dell’umanesimo italiano, dall’origine dell’utopia centrata sulla ricostruzione in ogni sua forma del mondo degli antichi, sino al “canto del cigno”, rappresentato, paradossalmente, dal trionfo del tecnicismo filologico con l’introduzione della stampa nell’ultimo trentennio del Quattrocento; da qui la necessità di ritrovare su più ampia scala europea (in primis in Erasmo) quei fondamenti etici e pedagogici che erano sottesi originariamente agli studia humanitatis.

Insomma, con la rivoluzione dell’ars artificialiter scribendi, sottolineava Rico, l’umanesimo conosce il suo trionfo ma al contempo comincia il suo declino, avviluppandosi in una serie di questioni iperspecialistiche che inaridiscono il campo di studi e tradiscono le ragioni fondative del movimento inaugurato da Petrarca. Io ho sempre pensato che, nell’ultimo quarto di secolo, di fronte alla rivoluzione digitale, Rico avvertisse che un pericolo analogo incombesse sui nostri studi letterari, ora che, consapevolmente o meno, essi erano posti di fronte al bivio se chiudersi a riccio di fronte alla novità oppure accettare la sfida. Con la scelta di fondare la rivista «Ecdotica», assieme agli amici Emilo Pasquini e Gian Mario Anselmi, Francisco Rico voleva sottoporre la tradizione filologica italiana (tendenzialmente neolachmanniana) alle urticanti sollecitazioni della bibliografia testuale di stampo anglosassone, alla genetica francese, fino alla Textual Theory e alle nuove possibilità offerte dalle edizioni digitali. Sin dall’editoriale del primo numero di «Ecdotica» (2004), Rico invitava a intendere il termine ecdotica non come semplice sinonimo di critica testuale, bensì come quella disciplina dal campo d’applicazione assai più vasto (che include tutti gli aspetti materiali nella produzione di un libro e, dall’altra parte, le modalità di ricezione da parte dei diversi destinatari); una disciplina necessariamente «impura, ibrida, proteiforme» – tutte caratteristiche, guarda caso, che possono definire anche il genere a Rico così caro del romanzo moderno –, che aiuti a vedere nella letteratura «un luogo di incontro di autori, testi e lettori» (dalla Presentazione di «Ecdotica», 1 [2004], pp. 5-6).

Capace come pochi altri di muoversi a proprio agio tra manoscritti e stampe, e tra le metodologie della filologia delle varianti e quelle della più moderna textual scholarship, Francisco Rico, come editore di classici, ha saputo rimettere in primo piano, accanto ai diritti dell’autore, quelli del lettore (ormai classica è diventata, ad esempio, la sua provocatoria proposta di lectio fertilior, nei casi di indecidibilità tra due lezioni adiafore, ovvero la lezione che comporta una maggior implicazione del lettore: una bestemmia per i filologi emunctae naris!); le sue scelte editoriali, sempre finalizzate ad evitare inutili intrusioni nel campo del lettore, hanno trovato senza dubbio la loro massima applicazione nell’edizione del Don Quijote de la Mancha nel quarto centenario della pubblicazione della prima parte del romanzo (1605-2005; ma già Barcelona, Crítica, 1998; poi Milano, Bompiani, «Classici della letteratura europea», 2012), frutto di un lavoro pluridecennale condotto come un novello Ercole nella palude di Lerna della variantistica tipografica cervantina.

È stato membro delle più prestigiose accademie europee e ha ricevuto molti premi e riconoscimenti, tanto da concedersi il lusso di poter scegliere quali rifiutare

Le sue parole erano tutt’uno con le sue sigarette: generazioni di studenti all’Autonoma di Barcellona hanno vissuto le gesta di Alfonso il Saggio, del Lazarillo de Tormes o di Don Chisciotte della Mancia tra le spire fumose delle sue sigarette, al pari di tutti gli aspiranti professori che per oltre mezzo secolo hanno voluto parlare di letteratura con lui a margine di un convegno o di una conferenza, quando Rico dava il meglio di sè, ostentando i vizi di cui andava fiero. In Spagna ricordano ancora quell’intervento sul  «El País» in cui difendeva strenuamente il diritto dei tabagisti di fumare nei ristoranti: un’ode al fumo degna del paradossale retore greco Luciano di Samosata. Era molto difficile essere presi in considerazione dal  «Grande Hidalgo», come io lo chiamavo affettuosamente, prima di aver bevuto almeno due o tre gin-tonic (il gin rigorosamente Bombay, altrimenti bisognava cambiare locale; e il Bombay andava versato lentamente, da parte del cliente, in maniera circolare, sopra l’acqua tonica...). Dopo questi primi giri l’altezzosità quasi liturgica di quel Borges europeo, suo malgrado incrementata dallo sguardo basso, a mezza vista, fra il triste e lo scontroso, cedeva il passo alla sua affabilità: quando la sua lingua si scioglieva era pronto a parlare col sorriso sulle labbra della fortuna dell’umanesimo italiano in Europa, dell’ottusità dei filologi italiani (qui tornava serio), di problemi di bibliografia testuale, dell’ultimo libro degli amici Peter Schillingsburg, Roger Chartier o Peter Robinson appena uscito negli Stati Uniti e subito da ordinare per farne una recensione sulla nostra rivista.

È stato membro delle più prestigiose accademie europee (la Real Academia Española, la British Academy, l’Accademia dei Lincei...) e ha ricevuto molti premi e riconoscimenti, tanto da concedersi il lusso di poter scegliere quali rifiutare. A questo proposito l’amico Marías ha scritto: «Si aveva l’impressione che fosse disposto a rimanere fuori unicamente dai luoghi nei quali l’ingresso non dipendeva che da lui, così come ad andarsene solo da quelli le cui porte gli erano state spalancate, e nei quali gli era stato scongiurato di entrare». Però raramente l’ho visto emozionato come durante la cerimonia della laurea honoris causa in Italianistica, Culture letterarie europee, Scienze linguistiche che l’Università di Bologna, su proposta del Dipartimento di Filologia classica e Italianistica, gli conferì l’11 aprile 2016.

Ha educato molte generazioni di studiosi senza avere nessun vero allievo. Forse i suoi eredi migliori sono gli scrittori Javier Marías, Eduardo Mendoza, Javier Cercas, nei cui romanzi Rico entra spesso come personaggio: «Immagino si crucciasse lui stesso di essere un contemporaneo, di se stesso e di tutti gli ignoranti e i mentecatti che se ne vanno in giro per il mondo lanciando alte grida senza porre freno alla loro idiozia, così disse una volta» (ancora Marias, Così ha inizio il male).

Dedicandomi una copia del suo saggio Il romanzo ovvero le cose della vita. Lezione Sapegno 2006 (Torino, Aragno, 2012) mi scrisse: «Persevera per severa per se vera, Severi». Mentre io persevero in questo gioco perennemente paronomastico ed equivoco che è la vita, a te, caro Professore, sia lieve la terra. Ciao, Paco.