Se l’autonomia regionale differenziata voluta da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ancora non è realtà, una parte non irrilevante del merito va senz’altro attribuita a Gianfranco Viesti. Grazie al suo libro Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, reso disponibile gratuitamente dall’editore Laterza sul proprio sito Internet nel 2019 e scaricato alcune decine di migliaia di volte, Viesti è colui che, per primo, è riuscito ad accendere i riflettori del dibattito pubblico sull’argomento, facendolo uscire dalle stanze della politica e dalle pagine delle riviste giuridiche dov’era, sino a quel momento, rimasto confinato.

Merita ricordare che alle fiammate propagandistiche di Veneto e Lombardia, che decisero di muovere le proprie richieste di differenziazione convocando, nel 2014-2015, appositi referendum popolari consultivi (poi tenutisi nel 2017), seguirono nel 2017 la assai più discreta iniziativa emiliano-romagnola – consistente nell’approvazione di delibere del Consiglio e della Giunta regionali – e, nel febbraio 2018, la stipulazione in sordina degli accordi di avvio del negoziato tra l’uscente governo Gentiloni, rappresentato dal sottosegretario agli Affari regionali Gianclaudio Bressa, e le tre regioni interessate.

Dopodiché, iniziò una fase di trattative segrete, gestita dalla ministra Erika Stefani per il primo governo Conte, di cui nulla si seppe fino alla prima metà del 2019, quando alcune fughe di notizie dai palazzi governativi resero noto che le negoziazioni erano, nel giro di pochi mesi, giunte a uno stato così avanzato da aver prodotto tre bozze d’intesa sulle competenze e le risorse che lo Stato s’impegnava a cedere alle regioni. Proprio in quel frangente temporale, la pubblicazione online del libro di Viesti contribuì a svelare quanto stava accadendo e a sensibilizzare il Movimento 5 Stelle, partner della Lega nel governo, sui rischi che potevano derivarne. Grazie al dibattito che ne seguì, il procedimento subì un rallentamento, confermato dai successivi esecutivi Conte II e Draghi, sino all’attuale vertiginosa ripresa impressagli dal governo Meloni per mano del ministro Roberto Calderoli.

È, dunque, con rinnovata tempestività che arriva nelle librerie Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale (Laterza, 2023, pp. 184), versione aggiornata e molto arricchita del lavoro originario di Gianfranco Viesti. Al centro del libro (capitoli 4-7) rimane l’analisi del processo di differenziazione promosso dalle tre regioni “apripista” e seguito, sia pure non sempre con la medesima intensità, da quasi tutte le altre regioni ordinarie. Altrettanto importante è, però, la parte iniziale (capitoli 1-3), volta a inquadrare il tema in una più ampia riflessione, che approfondisce l’organizzazione delle autonomie territoriali negli altri Paesi europei, l’evoluzione storica del regionalismo italiano (con interessanti interrogativi sulla persistenza delle ragioni che giustificarono l’introduzione delle autonomie speciali) e le questioni economiche sottese all’attuazione dei diritti costituzionali in un ordinamento multilivello.

Con uno stile di scrittura sempre limpido e attento alle esigenze anche del lettore non specialista nelle tante discipline chiamate in causa dall’argomento, Viesti dà consistenza, passo dopo passo, alle due tesi che sorreggono la sua argomentazione. La prima, di carattere descrittivo, è volta a ricostruire il processo di decentramento dei poteri pubblici verificatosi in Italia, a partire dagli ultimi anni del Novecento, in favore – soprattutto – delle regioni. La seconda, di carattere valutativo, è incentrata sull’analisi dei numerosi problemi causati da quel processo e sulla constatazione che, anziché intervenire per eliminarne le cause, le decisioni politiche assunte negli ultimi tempi sul regionalismo differenziato muovono nella direzione di ulteriormente inasprirle.

Quel che Viesti nel libro argomenta è la necessità di operare un attento riordino dell’assetto centro-periferia

Viesti non è uno studioso pregiudizialmente ostile alle regioni: non propugna un indiscriminato riaccentramento dei poteri nelle mani dello Stato; tanto meno immagina un ritorno alla Costituzione del 1948. Quel che nel libro argomenta, sempre a partire dai dati e dalle risultanze delle ricerche disponibili, è la necessità di operare un attento riordino dell’assetto centro-periferia, la cui attuale configurazione ricade negativamente non solo sulle relazioni, sempre pericolosamente conflittuali, tra lo Stato e le regioni, ma anche sulla posizione costituzionale degli enti locali (specialmente i comuni, indeboliti dal neocentralismo regionale), sulla tenuta della finanza pubblica (rimasta ancorata all’ingiusto criterio della spesa storica), sulle scelte di politica economica (condizionate dal marcato squilibrio infrastrutturale tra le zone del Paese), sull’attuazione dei diritti costituzionali (segnata dalla crescente diseguaglianza ai danni del Meridione), sul controllo delle responsabilità dei decisori politici (ostacolato dell’opacità del riparto delle competenze). Tutti profili sui quali il libro si sofferma. Non manca, in questo quadro sconfortante, la valorizzazione di alcune esperienze di successo, a dimostrazione concreta della possibilità d’intervenire a miglioramento della situazione senza dover per forza stravolgere il sistema: è il caso, in particolare, della perequazione intercomunale, che, grazie al lavoro svolto negli ultimi anni dalla commissione tecnica per i fabbisogni standard, ha avuto positive ricadute sulle risorse destinate all’attuazione dei servizi sociali, al trasporto degli studenti con disabilità, alla realizzazione di nuovi asili nido.

Perché, dunque, l’aumento dei poteri delle regioni, perseguito dai fautori dell’autonomia differenziata, avrebbe l’effetto di peggiorare la situazione?

La risposta di Viesti è che tramite il regionalismo differenziato – da lui ribattezzato con la fortunata formula della «secessione dei ricchi» – le regioni più solide, per condizioni istituzionali, economiche e sociali, mirano essenzialmente a salvare se stesse dalle difficoltà che gravano sull’Italia, così abdicando al dovere costituzionale, sancito dai principi fondamentali di unità (art. 5) e di solidarietà (art. 2), di operare avendo per fine ultimo il bene della Repubblica nel suo complesso. La parola «secessione», scrive Viesti, «è usata per richiamare una separazione che, seppure non di diritto, sarebbe nei fatti»: basti pensare alle richieste regionali volte a ottenere il pieno controllo, oltre che della sanità, dell’istruzione e dei musei (le due leve attraverso cui si costruisce l’identità nazionale, secondo l’art. 9 Cost.) o, in tutt’altro campo, l’acquisizione al demanio regionale del complesso delle infrastrutture stradali e ferroviarie e delle risorse idriche (in tempi di riscaldamento globale!) presenti sul territorio regionale. Per non dire delle amplissime richieste relative al governo del territorio o al sostegno alle imprese (un quadro completo delle competenze destinate a divenire regionali – trasformando l’Italia in un «Paese Arlecchino» – è nel capitolo 5).

Tramite il regionalismo differenziato, le regioni più solide, per condizioni istituzionali, economiche e sociali, mirano essenzialmente a salvare se stesse dalle difficoltà che gravano sull’Italia

Il riferimento ai «ricchi» è, invece, sorretto da due motivi principali: anzitutto, il fatto che ad avviare il processo di differenziazione siano stati i territori economicamente più benestanti, trasversalmente agli schieramenti politici (essendo coinvolte regioni guidate dalla Lega e dal Pd); di seguito, la circostanza che lo scopo pratico perseguito dalle tre regioni più avanti nelle trattative sia l’acquisizione non solo delle nuove competenze, ma soprattutto – come emerge dalla documentazione disponibile – di una consistente parte del gettito fiscale attualmente riscosso dall’erario sul proprio territorio, in modo da sottrarlo alla redistribuzione operata dallo Stato tra tutti i cittadini italiani (com’è prescritto debba accadere dagli artt. 2, 3 e 53 Cost.).

Tra i numerosi profili d’interesse della ricostruzione di Viesti – aggiornata agli effetti deteriori del regionalismo emersi durante la pandemia da Covid-19 e ai (limitati, ma comunque importanti) correttivi adottati in vista dell’attuazione del Pnrr – proprio quello economico merita una particolare attenzione, in virtù delle considerazioni contenute nel capitolo 3, sul c.d. “federalismo fiscale” legato alla riforma del Titolo V della Costituzione voluta dall’Ulivo nel 2001 (a conferma della trasversalità politica del processo in atto), e nel capitolo 6, sulle conseguenze che la realizzazione del regionalismo differenziato comporterebbe per la finanza pubblica.

In sintesi, a uscirne sconfessata è la principale tesi opposta dai fautori delle richieste regionali in replica alle preoccupazioni dei critici: vale a dire che, grazie ai livelli essenziali delle prestazioni (lep) inerenti ai diritti costituzionali, da finanziarsi obbligatoriamente, la differenziazione regionale riguarderà solamente la quota di prestazioni ulteriori rispetto a quelle che saranno comunque assicurate in modo uguale a tutti. Una tesi in base alla quale sarebbe sufficiente definire i lep – incarico affidato da Calderoli a un’apposita commissione presieduta da Sabino Cassese – per risolvere ogni problema. Peccato soltanto che là dove, come nella sanità, i lep sono operativi da decenni le diseguaglianze non siano affatto diminuite, semmai il contrario (al punto che oggi un terzo delle regioni non raggiunge il livello base di tutela della salute); e, soprattutto, che in numerosi altri settori la situazione sia persino peggiore.

La realtà – argomenta Viesti – è che, se davvero si volessero garantire lep uniformi a tutti i cittadini italiani (ammesso che sia realmente possibile definire tali livelli per tutti i diritti), occorrerebbe finanziarli non diminuendo ma incrementando la quota delle risorse erariali versate dai contribuenti del Nord da impiegarsi per alimentare la spesa pubblica destinata ai cittadini del Centro e del Sud. L’esatto opposto di quel che hanno in mente il governo e le regioni. Si trova molto probabilmente proprio in questa consapevolezza la motivazione delle dimissioni di alcuni tra i più autorevoli membri nominati dal governo nella commissione lep, oltre che la ragione delle severe critiche da ultimo rivolte ai lavori della commissione stessa dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.

D’altronde, è la stessa idea che le regioni possano vantare pretese sul c.d. “residuo fiscale” – la differenza tra le tasse pagate e la spesa pubblica erogata sul territorio regionale – a essere assurda: i cittadini pagano le imposte e ricevono servizi pubblici sulla base delle loro condizioni personali (reddito, patrimonio, stato di salute, condizione sociale, età, ecc.), tra cui il luogo di residenza non ha, di regola, rilievo alcuno: parlare di tasse “venete”, “lombarde” o “emiliano-romagnole” significa – tecnicamente – porsi nella prospettiva della secessione dal resto del Paese. Esattamente come denunciato da Gianfranco Viesti nel suo libro.