Negli anni Settanta venne di moda parlare del “caso italiano” come di una anomalia delle democrazie occidentali. Le interpretazioni spaziavano da una visione complessiva che etichettava il nostro Paese come il “grande malato d’Occidente” per via delle sue storiche deficienze economiche (il dualismo Nord-Sud in particolare) e della sua instabilità governativa, nonché per una peculiare cultura politica familistica e particolaristica, ad accezioni più circoscritte che puntavano su aspetti particolari come il predominio incontrastato di un partito inefficiente com’era la Dc, per la diffusione della corruzione, politica ma non solo, per il tasso di violenza politica e l’estensione della criminalità organizzata e, last but not least, per la presenza del più grande partito comunista del mondo libero.
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Il rumore delle vicende pubbliche e private del presidente del
Consiglio continua ad assordarci. I giornali e le televisioni
grondano di notizie su ogni parola, su ogni sussurro e grido
dell'indiscusso protagonista. Il quale, a sua volta, interviene a
ruota libera su qualsiasi argomento, sicuro che non mancheranno
gazzettieri solerti pronti a rilanciare il verbo.
Una banale analisi dello spazio occupato sulla stampa quotidiana
dalle dichiarazioni di Silvio Berlusconi dal 2006 ad oggi, ovvero
in tempi di governo e di opposizione, dimostra ad
abundantiam lo stato di occupazione permanente esercitato dal
presidente.
Ci siamo. Dopo quasi un ventennio di politica della paura e dell’odio, ci siamo. L’apartheid entra nell’agenda politica di questo nostro povero Paese. Ci ha pensato Matteo Salvini, deputato e capogruppo della Lega nel Consiglio comunale di Milano. Nei metrò, ha detto, occorre riservare due carrozze alle donne e altre ai “milanesi per bene”. Chi lo sia, milanese e per bene, naturalmente sarà lui a deciderlo. C’è stato chi si è indignato. Qualcuno ha anche distribuito su autobus e metropolitane cartelli con la scritta “Posti riservati ai pirla”, e con la sua foto a mo’ d’esempio. Ma si tratta, nel caso dell’indignazione e nel caso della risposta ironica, di ben magre consolazioni. Quello che voleva ottenere, Salvini l’ha ottenuto.
[...]C’erano un volta i Servizi pubblici. Qualcuno, per la verità, c’è ancora. La tanto vituperata Sanità, ad esempio, sopravvive a tutte le ridenominazioni, regionalizzazioni, soppressione di ministeri, e anche ai pregiudizi metodicamente instillati nei cittadini dai media: cooperando con il sole, la pizza e il mandolino a fare degli italiani uno dei popoli più longevi al mondo. Persino la Scuola e l’Università pubblica, con rispetto parlando, (r)esistono, ritrovando in se stesse risorse da economia di guerra. Ma dopotutto si tratta di servizi pubblici essenziali, come la Difesa e la Sicurezza: se lo Stato rinunciasse a fornirli, tanto varrebbe dichiarare bancarotta.
[...]Perché occuparsi oggi dei fatti italiani? È questa una domanda che ci si pone sempre più frequentemente, in Francia e altrove. L’Italia, vi spiegheranno i vostri interlocutori stranieri, conta meno che mai sulla scena internazionale. Arretra nell’economia mondiale. La sua capacità di attrazione intellettuale è in calo. Conta sempre meno anche in ambito scientifico, culturale o artistico. Nel suo insieme, poi, appare sempre più incomprensibile, anche a causa dei trionfi a ripetizione di Berlusconi, che all’estero viene generalmente visto come un pericolo o, nel migliore dei casi, come un ciarlatano.
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